Il blog di Sergio Maistrello dal 2003
Forse è ancora più chiaro, oggi che i luoghi di aggregazione, sollecitazione e contaminazione per i giovani non esistono quasi più, quanto peculiare sia stata la congiuntura in cui siamo cresciuti noi figli degli anni ’70 e ’80, forse ancora degli anni ’90, qui nel capoluogo dell’operoso Nord Est.
Non era già più il tempo dei rigidi percorsi confessionali o politici che avevano incanalato secondo metodi collaudati la formazione della gioventù del Dopoguerra. Il loro posto veniva invece occupato da palestre sperimentali e contenitori accoglienti per i talenti dei giovani, talora spontanei e autogenerativi (penso al San Giorgio di don Bozzet) altre volte strutturati dentro a un più ampio ripensamento in senso inclusivo della cultura e della società (come la “Casa dello studente” di don Padovese).
Luoghi di rivoluzione pacifica, civica e quotidiana, che forse non a caso sono stati ispirati spesso da preti illuminati sulla via del Concilio e che ciononostante non erano riconducibili semplicemente a dinamiche di parrocchia e oratorio. Soffiavano i primi aliti delle tempeste che si sarebbero effettivamente abbattute sul nuovo secolo e lavorare sugli anticorpi delle nuove generazioni pareva evidentemente a qualcuno un esperimento necessario.
Alla Casa dello studente, fin da ragazzino, ho visto i film che mi hanno fatto innamorare del cinema, ho salutato con entusiasmo le tappe di avvicinamento all’Europa unita, ho letto giornali e riviste, ho pranzato, ho studiato insieme ai miei amici, ho visto mostre, ho seguito conferenze sui temi cardine del nostro tempo, ho visto moltiplicarsi intorno a me anno dopo anno corsi di lingua, di fotografia, di giornalismo, di videomaking, di teatro, di ogni possibile forma di competenza e creatività contemporanea fino a quelli più recenti di robotica e di progettazione 3D. Un fermento che ha inciso sulla pelle della mia generazione sentimenti di libertà, cittadinanza e apertura al mondo delle idee e delle possibilità.
Per tutto questo oggi saluto con riconoscenza don Luciano Padovese. La sua scomparsa chiude simbolicamente un’epoca, sebbene il fantastico staff del Centro Culturale Casa A. Zanussi – a cui va il mio abbraccio – prosegua eroicamente nell’opera.
Don Luciano e gli altri hanno saputo nutrire generazioni con gli avanzi della società dell’abbondanza e fare la differenza nella storia di molti di noi. Oggi che gli avanzi sembrano essersi ridotti a briciole, restano tuttavia le intuizioni di fondo della loro opera – rete, relazioni, cultura, mondo, complessità, generazioni, competenze, sperimentazione, quotidianità – e resta più che mai l’urgenza di nutrire le nuove generazioni, generazioni solo apparentemente sazie, giovani che fanno sempre più fatica a maturare la consapevolezza dei loro talenti e la visione d’insieme in cui inserirli, sperando di fare in tempo per le prossime tempeste che inevitabilmente ci sferzeranno. Sarebbe un modo degno di onorarne la memoria.
Arrivederci al CRO
- LOCATED IN Vivo
È stato un privilegio della vita lavorare al Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. Raramente un luogo di lavoro ha saputo mescolare in modo così intenso la sfera professionale e quello degli ideali di comunità che inseguo nel mondo.
In tre anni ho ricevuto molto più di quanto io possa aver dato, dalle persone e nelle situazioni più imprevedibili. Questo è un luogo di dettagli, di sfumature, di interstizi, di epifanie. Ti si rivelano mentre sei in altro affaccendato e ti si appiccicano addosso, a volte svoltandoti la giornata, a volte imprimendo un segno nel tuo percorso di vita.
Qui resta un legame, non solo professionale, che spero di coltivare ancora. Da cittadino, molto prima che da professionista, provo gratitudine per le persone che hanno reso il CRO un luogo di cui andare fieri, e soprattutto per quanti oggi si adoperano per custodirne lo spirito.
Arrivederci. E grazie.
Ehi tu, figlia dodicenne
- LOCATED IN Vivo
Ehi tu, dodicenne che canti e balli la tua canzone inventata nella terra di mezzo tra infanzia e adolescenza. Che ora brontoli sul divano perché i compleanni poi finiscono e ogni minuto deve essere memorabile più del precedente.
Tu che nell’ultimo anno hai imparato a ridere di gusto di una risata aperta, sincera e autoironica, che riempie le stanze e fa innamorare. Che ogni giorno te ne freghi per qualche minuto in più di quello che gli altri pensano di te e inizi a decidere da sola le cose che ti riguardano, dosando con sapienza cinismo e giudizio.
Tu che mangeresti (e mangi) gelato al cioccolato tutti giorni, a qualunque ora del giorno, e la sera provi a convincerci che non conta se l’hai già mangiato quel giorno, perché a ben vedere non è più giorno ma sera. Tu che passi dalla disperazione furibonda alla gioia travolgente in pochi minuti, cambiando registro con la facilità con cui cambi i mondi e le skin sulla playstation.
Tu che spacchi a scuola, spacchi nello sport, spacchi nella musica, spacchi nei videogiochi, ma fai tutto col freno a mano tirato (tranne i videogiochi, s’intende), dando l’impressione di risparmiare energie, andarci piano con le vocazioni e mantenere tempi e spazi per scorprirsi e farsi scoprire poco a poco. E che in compenso hai la straordinaria fortuna di incrociare il maestro giusto nel tempo giusto, quello in grado di accoglierti e rispettarti per come sei, intuendo quello che sarai o che potresti essere.
Tu che quest’anno hai ricostruito il tuo nido in una camera tutta nuova, per conto tuo. Che tuo fratello lo cerchi ancora, ma con una complicità più matura. Che hai cambiato quartiere, scuola e compagni non senza timori, per scoprire invece una naturalezza nuova, che ti ha rinforzato e reso più libera. Che non ti ha fatto perdere i vecchi amici e te ne ha fatti incontrare di nuovi. E che ti fa leggere le storie che incontri, i luoghi che attraversi e gli inevitabili pericoli in cui inciampi con una testa sulle spalle che mi rassicura molto per gli anni a venire.
Tu, che sei nata con le orecchie a tortellino nel salotto di casa di una casa che adesso casa non è più, e uscendo da lì ci è sembrato di perdere per sempre un po’ della magia di quella sera. E invece eri tu quella magia, e l’abbiamo ritrovata intatta, grati, mentre ti guardiamo avviarti in cerca della tua strada nel mondo.
Ehi tu, proprio tu, tanti auguri dal tuo papà.
Ciao a te, Giovanni Silvani
- LOCATED IN Ricordo
Gianni l’avrebbe fatta molto breve. Gli piaceva molto dilungarsi in aneddoti e storie sportive, amava veder riconosciute le sue imprese e quelle della sua società, ma tendeva a rifuggire le cerimonie ufficiali, i discorsi formali, il doversi parlare addosso in giacca e cravatta.
E del resto che cosa possiamo dirci oggi che non ci siamo già detti in quasi sessant’anni di G.S. Hockey Pordenone, Gianni? Abbiamo passato la vita assieme. Come una famiglia, per sessant’anni abbiamo fatto progetti, abbiamo gioito (e quanto abbiamo gioito!), abbiamo allevato ragazzini, abbiamo litigato (spesso), abbiamo tenuto duro. E poi abbiamo ricominciato, più e più volte da capo. Conto almeno dieci generazioni di ragazze e ragazzi che hanno messo i pattini ai piedi e afferrato una stecca, da quando ti sei messo in testa questa cosa dell’hockey, Gianni. Dieci generazioni, alcune delle quali mettono in fila nonno, papà e nipote.
E quanti nipotini oggi in pista, Gianni. A te importava soprattutto vederli grandi e possibilmente forti, lo svezzamento hockeistico lo lasciavi volentieri ad altri. Alla festa di Natale – tu non avevi potuto essere con noi – avresti dovuto vederli, ho fatto giusto in tempo a raccontartelo l’ultima volta che ci siamo visti. Un palazzetto che brulicava di ragazze e ragazzi di tutte le età, felici, divertiti, innamorati dello sport di cui tu ci hai fatto innamorare tutti quanti. Quella pista brulicante, il fermento che viviamo ogni settimana, per cinque giorni alla settimana, ecco, quello credo sia il più bel monumento che ti potremo mai dedicare. L’hockey che continua, lo sport che sopravvive al suo patriarca, il sogno di tornare grandi che si rinnova di anno in anno, di gruppo dirigente in gruppo dirigente.
La tua visione, il tuo sogno sono sempre stati più grandi e hanno alimentato le visioni e i sogni di centinaia e centinaia di persone. Altro che squadra di provincia: tu eri un dirigente di rango internazionale, e non è un caso che per almeno un paio di decenni tu sia stato davvero uno dei personaggi più potenti nell’hockey pista italiano, e non solo italiano. Lo stanno riconoscendo in tanti in queste ore. Eri uno di quegli uomini che, nel dubbio, preme l’acceleratore a tavoletta, piuttosto che tirare il freno. E nella scorribanda gioiosa, entusiasta e visionaria che è stata la tua vita hai trascinato un po’ tutti noi.
C’è solo una parola che manca nella vicenda del GS Hockey, ed è grazie. “Grazie Gianni” l’avremo detto un milione di volte, figurati. Il grazie distratto, frettoloso, circostanziato, di tutti i giorni. Pendeva invece la celebrazione compiuta della tua vicenda sportiva, il riconoscimento collettivo della longevità delle tue idee, l’apprezzamento pubblico per la generosità che hai dimostrato con le ultime tue decisioni da presidente.
Per questo, anche con la scusa dell’ottantesimo compleanno, ti stavamo preparando una sorpresa per l’inizio del campionato. Al contrario, la sorpresa l’hai fatta tu a noi, amara. E oggi, frastornati dalla commozione, non saremo probabilmente capaci di rendere giustizia alla tua carica umana, al tuo continuo incitamento a fare meglio, alla tua determinazione a superare qualunque ostacolo.
Continuare il tuo lavoro, ricordandoci ogni giorno di quell’uomo genuino dai sogni grandi che ci ha indicato la strada, sarà il nostro modo di dirti grazie.
Ciao a te, Giovanni Silvani. Ciao a te.
- Il comunicato del G.S. Hockey Pordenone
Il presidente dei gialloblu
- LOCATED IN Vivo
Sono convinto che una delle chiavi di lettura di quest’epoca sia la responsabilità: intorno alle responsabilità che decidiamo di prendere, o più spesso di scansare, prende forma la comunità a cui apparteniamo.
Con quest’animo, sebbene non proprio a cuor leggero, lunedì sera ho accettato di diventare presidente del G.S. Hockey Pordenone, storica associazione sportiva che mi ha conosciuto ragazzino negli anni ’80 (nella rarissima foto d’antan, il primo a sinistra) e mi ha ritrovato qualche anno fa genitore e poi dirigente nel settore giovanile.
Per spirito di servizio, e con lo spirito di servizio che ho conosciuto negli occhi di Antonio Santangelo, di Ermenegildo Marrone, di Antonio Aloisi e di tante altre brave persone di buona volontà che per nostra fortuna ancora attraversano il PalaMarrone, mi metto a disposizione di un progetto non soltanto sportivo per i bambini e i ragazzi di Pordenone che si avvicinano all’hockey su pista, evidentemente lo sport più appassionante di tutti i tempi.
Al presidente Giovanni Silvani, che ieri abbiamo all’unanimità eletto presidente onorario, va la gratitudine mia e di tutto il movimento hockeistico pordenonese per aver contribuito a piantare un seme cinquantasette anni fa e aver accudito quel germoglio attraverso trionfi e tempeste fino a farne uno degli alberi più alti e prestigiosi nel bosco sportivo della nostra città.
Io e l’affiatato gruppo di dirigenti che con me oggi riceve il testimone di una gestione storica ne portiamo la consapevolezza e l’orgoglio.
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Il comunicato dell’ASD GS Hockey Pordenone
La scrivania di Bertilla
- LOCATED IN Ricordo
Se non ti chiedi come funziona quello che funziona, chi c’è dietro a tutta la cura che serve, comprendi solo una parte della tua città.
Dietro a Pordenone, dietro alle persone che ci hanno messo di volta in volta la faccia, com’è giusto che sia, dietro all’esplosione di eventi culturali e alla capacità della città di fare cose e attirare attenzione, negli ultimi vent’anni c’è stato soprattutto un manipolo di persone giovani, preparate, intraprendenti, la testa veloce quanto le mani, dotate di una passione e di un senso del servizio civico fuori dal comune.
O per meglio dire dentro al comune, perché in effetti l’epicentro di questa congiuntura straordinaria che ha contribuito a scuotere una città di fabbriche e caserme è stato proprio nella pancia del municipio. E l’epicentro dell’epicentro, nella mia immaginazione, era la scrivania di Bertilla Fantin, una scrivania il più delle volte vuota perché la città intera era per lei postazione di lavoro.
Allora forse si può intuire che cosa ha perso oggi Pordenone. Un ingranaggio di quelli che riparare il motore poi è un bel casino, che mica esistono le fabbriche di ingranaggi così. Un equilibrio meraviglioso di coscienza pubblica, efficienza privata, pratica, motivazione, capacità di trovare una soluzione per ogni problema.
E questo ancora è nulla di fronte alla simpatia, che scaturiva fin dal nome, alla carica umana, alla leggerezza, alla discrezione, alla benevolenza per il prossimo, all’amore per la città. Una persona molto speciale, che ti conquistava con naturalezza in un attimo e che poi non dimenticavi più, come confermerà probabilmente in queste ore chiunque l’abbia conosciuta.
Bertilla era un ingranaggio dell’anima di Pordenone. Non l’anima della Pordenon de ‘na volta, quella che fa tanta nostalgia. Ma l’anima della Pordenone di oggi, quella che stiamo ancora costruendo, a cui Bertilla ha dato tanto e ancora tanto avrebbe dovuto dare. Che fa rabbia, anche se un giorno rimarrà solo la riconoscenza.
Arrivederci, scuola Gozzi
- LOCATED IN Vivo
Allora ci salutiamo qui, piccola grande scuola Gozzi.
La mia famiglia e io siamo entrati una mattina di dicembre del 2011 e ne siamo diventati parte prima ancora di averlo deciso. Ricordo l’accoglienza, il calore, la percezione di uno stato di grazia che fondeva la passione e l’impegno di tutti in qualcosa di più grande e coinvolgente.
Per i nostri figli è stata un’esperienza felice. Due cicli molto diversi, ugualmente fondamentali. Tre cose almeno hanno avuto in comune: la cura, il senso di possibilità e l’idea che i muri non fossero un confine.
Grazie per la povertà, che è la cifra della scuola pubblica in quest’epoca miope: ci ha spinto a non dare mai nulla per scontato, a dare prima che a ricevere, a tirare fuori il massimo da ciascuno e il meglio da ogni cosa.
E grazie per la diversità: diversi per storie, provenienze, ambizioni, abilità, non è stato sempre scontato arrivare in fondo, salvo accorgerci a destinazione che quella fatica era gran parte del senso.
Da quelle porte è entrata tanta vita: dieci anni di vita della nostra famiglia, del nostro quartiere, della nostra comunità. Abbiamo vissuto gioie grandi, fieri orgogli, lutti da cui risorgere. Abbiamo attraversato la paralisi sociale di quest’ultimo anno e mezzo. Ne usciamo oggi un po’ cambiati, forse più maturi – noi adulti soprattutto.
Non è nemmeno l’ombra della conclusione che immaginavamo, questa di oggi, senza il calore dell’abbraccio né un testimone da passare. Eppure anche in questo ci insegni: che non ci si ferma, che non viene meno il momento. Neanche se è difficile. Neanche se manca la gratificazione.
Che tu possa ritrovare quella grazia e continuare a essere per tante altre famiglie la fonderia di comunità che sei stata per noi. Grazie.
L’informazione online vista dal 1996
- LOCATED IN Vivo
Mi cade l’occhio sulla brutta copia del tema di mia figlia. Il blocco note è quello di un precocissimo convegno di ANSA sull’informazione in rete. Gennaio 1996.
Ricordo.
Ricordo che ci andai da goffo laureando, dopo aver convinto uno scettico ma complice Franco Fileni ad accreditarmi. Ricordo che la mia tesi era un cantiere aperto, ma aveva già un titolo. Quel che resta del giornale.
Ricordo che misi in subbuglio la sicurezza presidenziale, perché il mio bagaglio finì sul cammino di Oscar Luigi Scalfaro, passato a benedire.
Ricordo l’emozione di ascoltare dal vivo Mauro Wolf e Derrick de Kerckhove. Ricordo la visione contagiosa ed entusiasta di Sergio Lepri, 76 anni all’epoca, lui da solo più avanti di un’intera corporazione.
Ricordo la sensazione già forte che al senso di possibilità e di dirompente novità che soffiava dagli Stati Uniti corrispondesse una via italiana molto più istituzionale, paludata e prudente. Diciamo.
Ricordo che quel giorno il futuro dell’informazione mi sembrava radioso. E che ero entusiasta all’idea di contribuire a costruirlo.
Abbiamo preso i giovani in ostaggio
- LOCATED IN Parlo
Nei giorni scorsi mi hanno chiesto di parlare di scuola dal punto di vista del genitore. Dice, ancora? Che c’entri tu con la scuola? Poco. Sotto la scorza nerd, batte pur sempre il cuore civico di un padre che ha servito un numero ormai considerevole di anni come rappresentante di classe e di istituto. Non abbastanza da titolarmi a parlare, ma abbastanza forse da aiutarmi a distillare due idee. Sempre le stesse, in effetti. Come d’abitudine, affido alla rete i miei appunti, ampliati e rivisti.
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Abbiamo preso i giovani in ostaggio. I nostri figli sono ostaggi di una società anziana, spaventata e ignorante, che sta scaricando su di loro il peso della sua inadeguatezza. Non li tarpiamo: li svuotiamo. Con la scusa di tenerli al sicuro, creiamo il vuoto attorno e dentro loro. Si ribelleranno, speri. Ma se di fronte alla prigionia delle idee puoi almeno fare un Sessantotto, nel vuoto ti viene sottratta anche la consapevolezza della tua condizione. Soffocano del nostro amore.
Facciamo perdere loro quotidianamente opportunità ed esperienze nel nome di una visione della realtà paranoica e spesso sobillata da terzi per interessi non limpidi. A volte semplicemente perché siamo scemi: di recente mi hanno spiegato che al posto delle classiche giornate di Scuola aperta, annullate per evidenti contingenze, non si potrà fare nemmeno un video in cui i bambini presentano la loro scuola. Per ragioni di privacy, dice. Significa che qualcosa, nel processo di formulazione, comprensione o applicazione del pur sacrosanto diritto alla riservatezza, è andato molto ma molto storto. Eppure è sintomatico di un atteggiamento.
Famiglie e istituzioni sembrano interpretare la responsabilità dell’educazione dei giovani avendo come prima urgenza quella di evitare di prendersela, questa responsabilità, passandola avanti finché semplicemente non diventa il problema di qualcun altro. L’ossessione di garantire le opportunità, la sicurezza, le differenze ha partorito, invece che una comunità più giusta, sicura e inclusiva, una gabbia sterile e asettica, ma a norma di legge e socialmente plaudita, che inibisce un numero crescente delle esperienze che dovrebbero puntellare l’evoluzione del bambino e dell’adolescente.
Prima degli 11 anni, oggi, in Italia, un ragazzino è un soggetto più che passivo. È un pacco nelle mani del suo postino e gli è precluso ogni allenamento alla responsabilità sociale di se stesso e dei suoi comportamenti. Non può muoversi da solo per il suo quartiere. Non può andare a scuola da solo. Non può tornare a casa da solo. Non può andare al parco da solo. Non può andare a comprare un gelato da solo. Non può andare in palestra da solo. Deve passare costantemente dalla mano di un adulto a quella di un altro adulto, rogito di una responsabilità che va sempre certificata. Il nugolo di genitori che si assiepa davanti a qualunque luogo frequentato da bambini non mi sembra l’immagine di quanto gli vogliamo bene, semmai l’immagine del fallimento di un intero progetto di avviamento alla vita. È il segno di una società arricchita e decadente che, nel nome della paura e di un frainteso garantismo, ma anche di tanta paraculaggine, ha perso di vista il suo scopo.
Poi a 11 anni improvvisamente l’autonomia diventa accettabile. Per necessità, più che per convinzione. Senza preparazione, senza allenamento, senza progressione, senza aver avuto la possibilità di tessere le piccole reti e di costruire le piccole mappe del proprio spazio pubblico. Alle scuole medie, nell’età e nel ciclo scolastico probabilmente più disgraziati e pericolosi della loro vita, quello rispetto al quale negli ultimi decenni non ho visto evolvere una sola idea pedagogica.
Che poi si fa presto a dire anche spazio pubblico: siamo così abituati a confinarli nella rassicurante sicurezza di una casa, dove non essendo sfidati loro stessi albergano comodamente, anestetizzati dai loro schermi luminosi, che abbiamo ormai demolito i luoghi pubblici dell’età della formazione. Non esistono più centri giovanili, non esistono praticamente più gli oratori, abbiamo sepolto sotto quintali di legislazione e burocrazia qualunque centro di aggregazione provi a proporre attività sfidanti per i giovani. La maggior parte delle cose che io potevo fare tra i 6 e i 16 anni, quelle che hanno contribuito a rendere me l’uomo che sono, oggi sarebbero probabilmente considerate illegali o pericolose o socialmente riprovevoli.
E qui mi piacerebbe avere modo di ricordare una storia che la nostra città ha scelto invece di dimenticare in fretta, la storia dell’Oratorio San Giorgio di don Felice Bozzet tra gli anni ’80 e il Duemila in centro città, una storia di responsabilizzazione della gioventù talmente fuori dagli schemi che oggi non viene reclamata né dalla Curia né dalla comunità civile, pur essendo iscritta nel dna sociale di centinaia di cittadini pordenonesi tra i 30 e i 50 anni.
E ancora: pretendiamo dai ragazzi impegno e buoni voti, ma li mettiamo a confronto quotidianamente con una sciatteria, una disorganizzazione, una mancanza di cura o anche solo di attenzione umana che modellano costantemente il loro sguardo sul mondo e le loro aspettative sulla vita adulta. Insegniamo prima di tutto con l’esempio, no? Mi è capitato di passare alcune ore in un’università e poi alcuni giorni in un’ospedale col mio figlio maggiore: il riconoscere attraverso i suoi occhi tutto ciò a cui io adulto sono ormai assuefatto e rassegnato mi ha fatto male. Con che coraggio io chiedo a lui di mantenere gli standard che intorno a lui noi adulti rinneghiamo, il più delle volte in modo perfino plateale?
Certo, il mondo è sempre più complesso e faticoso. La complessità esplode. Ma anche di fronte alla possibilità di imparare a governare la complessità con strumenti più adatti – strumenti del presente, che utilizzano le stesse logiche operative della complessità – negli ultimi due o tre decenni noi abbiamo scelto ostinatamente di girare la testa, di ignorarli, di usarli in modo ignorante, sciatto, reiterando schemi inadeguati, rigettando ogni proposta mettesse in discussione la nostra visione consolidata.
Nel vuoto e nell’incapacità della comunità, si sono fatti spazio interessi scaltri, cattivi maestri, gente che sfrutta l’ignoranza degli adulti e il candore destrutturato dei ragazzi per erodere margini di consenso, di mercato o di potere. In questo calderone potete mettere anche i riflessi del populismo, che poi magari vi chiedete da dove venga. Ma anche, nel caso dei più giovani, le piattaforme digitali che, mentre disegnano la forma del futuro creativo a cui apparterranno, tendono a intrappolarli in dinamiche relazionali e in labirinti narrativi astuti, pensate per servire interessi cinici e commerciali molto prima del loro armonico sviluppo.
Che cosa può fare la scuola? Da sola niente. L’errore in passato è stato forse pensare che la scuola dovesse sempre generare le soluzioni al suo interno o assumerle per gerarchia ministeriale. Ho imparato, nelle mie esperienze civiche e nelle mie scorribande adulte nel mondo della formazione, che le scuole – soprattutto quelle che lavorano sui bambini più piccoli – sono invece l’espressione di una comunità. Del coraggio, delle intelligenze, della lungimiranza di una comunità. Della volontà di una comunità di investirci tempo e risorse. Comunità educante, si diceva.
Dire che “ci pensa la scuola” equivale a dire che è un problema nostro. Dire che “è responsabilità del preside” significa dire è un problema del nostro vicino di casa. Dire che “è colpa dell’insegnante” è dire che è colpa nostra, perché i limiti di quell’insegnante sono espressione dei limiti della comunità di cui fa parte. E dunque sono per definizione un nostro problema e una nostra responsabilità.
E allora che si fa? Sarebbe già un passo avanti prendere atto di avere un problema, enorme. Il passo successivo sarebbe immaginare un progetto di convivenza che metta i giovani al centro, li avvii alla responsabilità di sé e degli altri fin dalla tenera età, li spinga a essere migliori, li incentivi a costruire una comunità migliore, per risvegliare loro dal torpore e sperare che poi siano loro a prenderci per mano, affidandoci ormai anziani a quel che resta del nostro futuro migliore.
La mia generazione è stata – tappatevi le orecchie, perché ora dico una parolaccia – fottuta dalle rendite di posizione e di potere dei suoi padri. O – come dice quello, non senza una parte di ragione – non è stata abbastanza brava da uccidere politicamente i propri padri quando era giunto il momento. È una generazione ormai persa, una generazione di passaggio e di servizio: può fare tutt’al più da coscienza e da collante. Può fare da ponte e spingere verso maggiori opportunità per chi verrà dopo. Mancasse anche questa responsabilità, le rimarrebbero ben pochi scopi.
Arbitrava Aloisi di Pordenone
- LOCATED IN Ricordo
Antonio, sei stato l’arbitro di generazioni di hockeisti pordenonesi. Noi, mandati allo sbaraglio contro avversari sempre più forti di noi, le regole di base ancora ben confuse. Tu già le rinforzavi con severità: nel mio ricordo, incutevi un timore e un rispetto fuori scala, i tuoi fischi ancora mi risuonano nelle orecchie.
Molti anni dopo ti ho ritrovato arbitro alle prime partite di mio figlio. Lì ho scoperto la simpatia e la benevolenza che invece animavano quello sguardo. Fischiavi ancora a muso duro di fronte a un fallo, ma poi a noi facevi l’occhiolino divertito.
È stato un onore condividere il tavolo con te in tante partite. Difficilmente ti sfuggiva qualcosa. Dopo decine di referti di gara, ancora riuscivi a cogliermi in fallo. Un errore, una dimenticanza, un’imprecisione. E quel dettaglio, che ai più sembra secondario o trascurabile, per te erano sufficienti a farci ristampare tutto da capo. Non era burocrazia, era – e continuerà a essere, anche senza di te – l’amore per le cose fatte bene fino in fondo, nel rispetto di tutti.
Nel variopinto e spesso disgraziato mondo dell’hockey pordenonese sei stato una presenza oltremodo generosa, operosa, assidua. Una roccia. Il tuo ruolo non ti consentiva di entrare nelle faccende organizzative locali, eppure sapevi essere di supporto senza mai intaccare l’indipendenza e la credibilità. Eri la quintessenza dello sport: in prima linea quando c’era da dare una mano, defilato quando c’era da prendersene il merito.
Le palline continueranno a rotolare al PalaMarrone, anche grazie a te. Ma sarà così strano, senza averti più nei paraggi. Grazie di tutto, Antonio, non lo dimenticheremo.
- Il comunicato del GS Hockey Pordenone
- Il ricordo del GS Hockey Pordenone
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