È andata così

Ore 11.30, risveglio lento. Sabato mattina (pari a 40 settimane e 1 giorno di gravidanza) ci svegliamo più tardi del solito, riposati e rilassati come mai nei giorni precedenti. Stefania, in particolare, non recupera coscienza prima delle 11.30: ogni velleità di passeggiata in centro scema da sé, il pranzo di compleanno del papà di Stefania viene riaggiornato dai suoceri al giorno seguente e noi decidiamo di invitare i miei genitori e mia zia per un caffé nel primo pomeriggio. Preparo la colazione a Stefania, mentre lei si alza senza premura. Tenta di raggiungere il bagno, ma si ferma a metà strada; fa tempo soltanto a dire «Oh-hò, ho paura che…» prima di correre in bagno. Delle frasi sconnesse che bofonchia al di là della porta riconosco soltanto «…acque…!».

Ore 12, il punto. La colazione diventa l’occasione per fare un punto della situazione. Siamo sereni, ma certo emozionati all’idea che stia per cominciare qualcosa. Le acque si sono rotte in modo contenuto, senza la cascata plateale che ci si aspetta: con ogni probabilità si tratta di una fessurazione piuttosto alta. Stefania prova ad abituarsi all’idea dello stillicidio di gocce di liquido amniotico, che continuerà per ore. Studiamo il piano d’attacco, sapendo che la semplice rottura non implica necessariamente un travaglio imminente, ma al contrario richiede l’induzione entro le 24 ore successive per evitare sofferenze fetali. Telefoniamo a Barbara, l’ostetrica privata che ci ha accompagnato nelle ultime settimane di gravidanza: conferma la rottura del sacco e dice che a occhio entro notte vedremo Giorgio. Con lei ci diamo appuntamento per le nove di sera a casa nostra, dove abbiamo intenzione di passare buona parte del travaglio per evitare qualunque intervento ospedaliero non strettamente necessario. Suggerisce di prendere dell’olio di ricino, che talvolta stimola l’avvio delle contrazioni.

Ore 15.30, i preparativi. Di sabato pomeriggio ho un ricordo vivido. Il caffé coi miei genitori è più veloce del previsto: quando raccontiamo loro le ultime novità si allarmano un po’ e decidono di non affaticarci inutilmente. Io esco a fare le ultime spese necessarie: ricordo come fossero inquadrature di un film gli scorci e le facce dei passanti che ho incrociato in quel giro. Nell’aria respiro la stessa sensazione di attesa serena e di preparativi urgenti che ho provato il pomeriggio precedente al nostro matrimonio, in riva al laghetto dove finivo di sistemare gli addobbi per il rinfresco che si sarebbe tenuto una manciata di ore dopo. Penso a Stefania, che ho lasciato a riposare a casa: è un po’ emozionata per le novità imminenti, ma tranquilla e concentrata.

Ore 17.30, il girasole. Torno a casa con l’ultima spesa dalla farmacia, un po’ di filetto per cena, un fiocco azzurro perché non si sa mai e un girasole augurale per contaminare d’allegria l’ambiente. Stefania continua a perdere liquido amniotico: s’immagina Giogiò come un pesciolino dentro un acquario scheggiato, sebbene l’ostetrica l’abbia rassicurata in proposito. La sua serenità non è stata scalfita dal paio d’ore di riposo senza sonno e deglutisce con ironica rassegnazione un cucchiaio di olio di ricino, che per la sua persistenza vischiosa e un po’ anonima descriverà come un ottimo burro cacao per le labbra.

Ore 19, grasse risate. Mentre preparo la cena, Stefania comincia ad sentire quelli che lei chiama “brividi ridoloni”: li descrive simili alla sensazione di sospensione che si prova quando si va in altalena, oppure quando si supera una cunetta in macchina. Si contorce dalle risate per qualche decina di secondi ogni volta: all’inizio sono casi isolati, ma poi riconosciamo una regolarità e durante la cena si susseguono sempre più frequenti. Mentre sparecchio, Stefania è seduta sul divano, sopraffatta dal divertimento.

Ore 21, Barbara. Alle nove, puntuale come il salto di qualità dei brividi ridoloni, arriva l’ostetrica. La aggiorniamo su tutto ciò che è successo nel pomeriggio, in un clima euforico e divertito. La visita ginecologica dice che la dilatazione è già di un paio di centimetri. Stefania è basita: «Ma non può essere, io sto ridendo, queste non sono contrazioni, non fanno male». Barbara la guarda con severa tenerezza, e la sua espressione dice «Ne riparliamo tra un po’, cara». Propone di fare una passeggiata: l’aria e il movimento sono molto utili per indurre un travaglio naturale. Accettiamo con piacere.

Ore 21.30, a spasso nel quartiere. Giriamo con calma per le strade sotto casa, che sono immerse in una fresca e tranquilla sera di inizio agosto: le contrazioni sono ormai regolari ogni tre-cinque minuti e un po’ per volta cambiano di intensità. Stefania smette progressivamente di ridere e fa smorfie più contratte, ma è ancora molto tranquilla e presente. Controlla il dolore, ancora leggero, fermandosi e respirando intensamente. Di qui in poi la situazione evolve con una velocità sorprendente. In un’aiuola nei pressi del Policlinico la cena abbandona lo stomaco da dove è entrata, segno che il corpo ha ormai accentrato tutte le energie disponibili nei dintorni del pancione, eliminando ogni dispersione inutile. Sulla via del ritorno verso casa Stefi è piegata in due ogni pochi minuti, ma non perde mai concentrazione ed è bravissima ad assecondare le ondate cicliche ondeggiando con il bacino e appoggiandosi a muretti e pali della luce (curiosamente sempre nei pressi di un bidone delle immondizie). Mentre si abitua un po’ per volta al dolore, quello cambia forma e aumenta di intensità. A mente lucida racconterà di non aver vissuto il dolore come tale, tanto diverso era da ogni sensazione conosciuta in precedenza e così funzionale all’esperienza che stava vivendo. Barbara e io le massaggiamo la schiena, quando sembra esserle d’aiuto. Le siamo accanto e scherziamo un po’ su quella che ai passanti potrebbe sembrare una gran brutta sbornia.

Ore 22.30, il momento mistico. Immagino che ogni travaglio abbia un momento particolarmente intenso, quello in cui capisci che sei davvero vicino al capolinea. Il nostro è stato nel giardinetto condominale, un prato riparato da siepi e immerso nel buio. Sotto quel cielo stellato, Stefania ha trovato grande conforto standosene a quattro zampe e vocalizzando, riuscendo ad applicare d’istinto posizioni imparate a yoga e durante i corsi pre-parto. Determinata come non avrei mai pensato e sempre più lontana da noi, si abbandona agli istinti primordiali: domina la situazione con tutte le sue forze, trae vigore dal contatto con la natura, si lascia abbracciare dalla terra che la sorregge. Nessuna parola può rendere giustizia a quei minuti sul prato sotto casa: l’intensità, la forza, l’energia che si respiravano nell’aria e ci avvolgevano con gentilezza sono qualcosa che credo non potrò mai più dimenticare.

Ore 23, meglio affrettarsi. L’occhio esperto di Barbara non si fa distrarre dal contesto bucolico e a malincuore ci invita a tornare in casa perché ha il sospetto che le contrazioni abbiano già lavorato abbastanza. Ci racconterà in seguito che, se fosse stato per lei e se noi a suo tempo avessimo accettato l’idea del parto in casa, l’avrebbe fatta partorire tranquillamente lì, in quel prato appartato e così magico in quella notte. Dovendo raggiungere l’ospedale cittadino in tempo utile, invece, è opportuno controllare a che punto siamo arrivati. Come all’andata, facciamo le scale a piedi e ci mettiamo un’eternità. Ogni piano corrisponde ad almeno due contrazioni forti, con conseguente pausa e ripresa lenta.

Ore 23.15, si corre. Barbara visita Stefania: è già a 6/7 centimetri di dilatazione, più di quanto immaginasse. Da 2 a 6 centimetri ci si può mettere ore, ma di lì in poi è quasi sempre una questione di poco. È il caso di affrettarsi, dice Barbara. Stefania è ormai in un altro mondo: è completamente concentrata su se stessa, sente le voci da lontano e reagisce come un automa. Io prendo quell’affrettarsi come un “ok, prendiamo tutto, prepariamoci e andiamo”, finché non incrocio lo sguardo di Barbara che insiste sull’urgenza. Arraffo lo stretto indispensabile, quasi non mi allaccio le scarpe, montiamo in ascensore e raggiungiamo le automobili. Barbara carica Stefania nella sua e mi chiede di farle strada verso l’ospedale. Il percorso è sgombro, arriviamo in cinque minuti. Convinco il portiere a farci entrare nel parcheggio interno e saliamo in reparto. Stefania da alcuni minuti avverte una gran necessità di spingere, ma non deve farlo assolutamente: lo ricorderà come uno dei passaggi più duri di tutto il parto. Di tutta questa fase io conservo soltanto istantanee ovattate.

Ore 23.30, la sala parto. Entriamo in sala parto. Barbara riconosce alcune colleghe di specializzazione, che si perdono in convenevoli: ma come stai, ma come mai qui, ma stai ancora lì, ma quanto tempo che non ci vediamo… Stefania, in piedi a fatica con le mani a trattenere malamente una pancia ormai del tutto discesa e il respiro a cagnetto, le fulmina con lo sguardo. Abbiamo indovinato una delle notti più complicate del mese: tutte le sale travaglio sono occupate e l’unica ostetrica di turno si deve fare letteralmente in quattro, con una quinta in arrivo di lì a poco. Stefania, che è ormai completamente dilatata e conquista di prepotenza la priorità d’intervento, viene sistemata nella saletta di riserva a due letti, uno dei quali è già occupato. Scopro che il personale ha il sommo rispetto della privacy delle partorienti: per evitare che tu – uomo, prima che futuro padre – possa godere della vista della donna altrui discinta, benché non certo in uno dei suoi atteggiamenti più seducenti, ti cacciano subito via in malo modo. Resto fuori dal portone scorrevole in alluminio della sala parto per un tempo che a me pare interminabile, pensando che mi stavo perdendo quel momento irripetibile per un banale ingorgo e per pudicizia soltanto supposta.

Ore 23.45, spinga, signora, spinga. È Barbara a venirmi a recuperare poco dopo. La compagna di stanza di Stefania è stata trasferita in un altro locale e ora posso partecipare anch’io. La sala è piccola ed è piena di personale che si ostacola a vicenda per passare: l’ostetrica svetta per competenza ed empatia in un girone sconclusionato di dottoresse giovanissime, infermiere assonnate e assistenti che portano dentro e fuori gli stessi carrelli più volte. Stefania è già nella posizione che per nove mesi ha cercato di evitare in tutti i modi, supina sul lettino da travaglio, ma ora come ora è concentrata soltanto nel dominare le spinte. Dei momenti che seguono ho ricordi confusi: la difficoltà di concentrare l’attenzione su un punto specifico, il via vai di persone, i richiami delle urgenze delle sale adiacenti a cui abbiamo sottratto attenzione, la trasformazione del letto in postazione operativa, i preparativi della neonatologa che sistema l’attrezzatura precauzionale in caso di sofferenza alla nascita. La testina di Giorgio preme all’uscita e a ogni contrazione sembra lì lì per superare l’ultimo ostacolo. L’ostetrica invita Stefania a sentire i capelli del bimbo con la mano per invogliarla a spingere con forza, ma il risultato è opposto: la sua mano tocca un tessuto morbido che al tatto non sembra affatto una testa, così si convince che stiano scherzando. Guardo l’orologio: i minuti che mancano alla mezzanotte passano lentissimi, tutto sembra imminente ma poi non accade, e io penso a Stefania e a tutte le volte che abbiamo scherzato sul fatto che il pupo, burlone, sarebbe nato alle 23.59 dello stesso giorno in cui è nato suo nonno materno.

00.05, perineo o mio perineo. Spingi che ti rispingi, Stefania comincia a essere un po’ provata. L’ostetrica Annalisa, insieme a Barbara (che può solo assistere ma non intervenire in alcun modo), la invita a spingere con cattiveria. Stefi applica la respirazione dolce imparata in piscina, ma l’ostetrica ha fretta e la stimola ad apnee profonde ed efficaci in tempi più brevi. In una pausa Stefania se ne esce con una frase storica: «Il mio perineo, come sta il mio perineo?». L’ostetrica scoppia a ridere, pensando che è la prima volta che in quella situazione qualcuno le chiede notizie di un centimetro del proprio corpo, piuttosto che preoccuparsi del bambino stretto tra il collo dell’utero e la sinfisi pubica. Ma il bambino è monitorato, dice Stefania, lo sento benissimo, so che sta bene, io voglio sapere in quali condizioni sia il mio perineo. «Mica mi hai già fatto l’episiotomia?», rincara la dose preoccupata. L’ostetrica nicchia, tentando la reazione d’orgoglio, ma poi a me fa l’occhiolino divertita. Alla fine i punti non saranno pochi, ma soltanto per le lacerazioni dei tessuti, niente episiotomia – con sollievo prematuro della partoriente.

00.12, Giorgio! Seguo la scena ciclica come se la guardassi con occhi non miei. Sono alle spalle di Stefania, le tengo sollevata la testa durante le contrazioni, le accarezzo le braccia nei momenti di calma, quando me lo chiede le porgo il succo di frutta che si è portata da casa. Non ho ancora preso le misure, da un’ora in qua tutto sta accadendo troppo velocemente, mi sento trasportato dagli eventi. Poi a un certo punto, all’ennesima contrazione, l’ostetrica afferra una testolina minuscola, esegue la manovra di rotazione per far uscire le spalle e tira fuori un bimbo urlante. Solo un attimo sospeso per aria a prendere un bel respiro ed è subito sulla pancia di Stefania, e lì davvero non capisco più niente: non riesco nemmeno a farmi travolgere dalle emozioni, tanta è la coda di stimoli da elaborare in pochi istanti. Giorgio si calma subito e se ne sta buono buono a capire che cosa sia successo, guardandosi attorno confuso. È tutto bislungo, stritolato dall’angusto passaggio, ma minuto dopo minuto assume le sembianze di un neonato così come siamo abituati a vederlo alla tv. Guardiamo l’esserino con meraviglia e curiosità, Stefania lo accarezza, tra lo stupore intenso e le prime esplosioni di istinto materno. Aspettiamo che il cordone ombelicale smetta di pulsare, poi l’ostetrica mi chiede se voglio tagliarlo: ho quest’immagine di me che mi avvicino a lei, indosso con difficoltà un paio di guanti di lattice, guardo l’infermiera mentre mi porge un paio di forbici chirurgiche, le afferro, taglio con apparente freddezza quel tubo della consistenza di un baccello e me ne torno al mio posto; ma è come se non l’avessi fatto io. La placenta, stimolata da una flebo di ossitocina, esce in un attimo, faccio tempo appena a vedere l’ostetrica che inserisce in un contenitore opaco una cosa che per aspetto e consistenza assomiglia a un paio d’etti di fegato di vitello. La fatica del travaglio è già un ricordo: Giorgio è arrivato, Giorgio è con noi.

Ore 0.50, intermezzo. Portano Stefania in un’altra sala per suturare le piccole lacerazioni che si è procurata durante le spinte. Mi fanno uscire per qualche minuto e ne approfitto per avvisare i nonni col telefonino. Tutti citeranno poi la mia voce, così strana ed emozionata quella notte, ma prova tu a chiamare a notte fonda, di straforo, con un cellulare in un corridoio d’ospedale immerso nel silenzio. In attesa di rientrare apprendo il motivo del trambusto nel momento in cui siamo arrivati e la misteriosa sparizione della compagna di letto di Stefania: la sua gravidanza, regolarmente a termine, si è conclusa nel peggiore dei modi, senza che si potesse fare nulla per salvare il bambino. Mi prende una gran tristezza, mi commuovo forse per la prima volta da quando è iniziato il travaglio e sento così fuori luogo quella mia gioia prorompente da neo-padre di un bimbo bello e sano. Penso che così è la vita, che possiamo solo prenderne atto, che tutto ha un senso, ma una volta di più afferro l’essenza del miracolo di una nascita felice in un tripudio sfacciato di ostacoli e avversità.

Ore 1.00, tante domande. Mentre attendo di riabbracciare mia moglie e nostro figlio, l’ostetrica mi introduce al lato burocratico del suo lavoro. Carte su carte: per il ricovero urgente, per il trattamento dei dati personali, per le statistiche regionali e altro ancora. Continuo a ripetere nomi, cognomi, indirizzi, codici fiscali per diversi minuti, poi – presa dalle urgenze – mi consegna il malloppo e mi prega di arrangiarmi da solo. Tanto diligente sarà il neo papà da compilare sull’onda dell’entusiasmo anche i riquardi medici riservati all’ostetrica. Quando posso raggiungere la mia famiglia mi avvertono che fuori dalla sala parto si sono presentati i genitori di Stefania: mio suocero si è spacciato per medico e ha superato i sommari controlli notturni. Penso: non è possibile. Ci ripenso: oh sì, è possibile, tanto vale calmare la loro comprensibile eccitazione e guadagnare tempo fino al mattino successivo, spiegando che il pupo non sarebbe uscito da quella porta prima di alcune ore.

Ore 1.30, di nuovo insieme. Ci portano in una delle sale post-parto, dove genitori e bimbo possono raccogliersi in intimità per un paio d’ore, compatibilmente con il via vai di medicazioni e controlli. Mamma e bimbo vengono separati soltanto per pochi minuti, necessari per la visita di controllo e un lavaggio veloce. Giorgio torna con un ciuffo ribelle dritto in testa che nemmeno acqua e sapone hanno potuto domare. Stefania e io ci guardiamo in faccia, ancora increduli per la velocità e la sfrontata facilità del tutto – punti a parte, che racconta averle fatto un gran male. Guardiamo Giorgio che fa i suoi primi tentativi di attaccarsi al seno di sua madre, beatamente inconsapevole di essere diventato nel giro di poche ore un contenitore per emozioni. Gli auguriamo buon viaggio citando per quanto possibile a memoria la formula degli aborigeni australiani descritta da Marlo Morgan: Sappi che sei amato e sostenuto in questo tuo viaggio. Io parlo dal dietro dei miei occhi, dalla parte del Sempre che è in me, e mi rivolgo al dietro dei tuoi occhi. Mescolo la mia aria con l’aria di tutta la tua vita affinché entri in te. Tu non sei mai solo, tu sei collegato al Tutto. Sono istanti di grande intensità e commozione, diluita dai racconti reciproci dell’esperienza appena vissuta. La notte passa lenta, accarezzandoci dalle finestre con una brezza affettuosa.

Ore 3.30, a nanna. Superata la fase di osservazione, Stefania viene assegnata alla stanza in cui resterà ricoverata per i successivi tre giorni. Nel cuore della notte seguo un’infermiera dai modi rudi che sistema il letto, sbattendo tavoli, spostando sedie e urtando ovunque. Temo l’ira delle altre due neomamme assopite, ma una di loro mi smentisce con un gran sorriso e mi dice con enfasi sussurrata «Congratulazioni!». Io la guardo con imbarazzo e sconcerto, come a chiederle se stesse parlando proprio con me. Giorgio dorme beato accanto alla mamma. Io non vorrei mai lasciare Stefania, vorrei che questa notte durasse per sempre, tanto tutto è perfetto e pieno di gioia che sgorga da dentro. Mi rassegno a lasciarli riposare, ma a ogni saluto segue una contemplazione così lunga che costringe a nuove parole.

Ore 4, verso casa. Il parcheggio interno dell’ospedale incanala le automobili in un lungo giro cieco tra i padiglioni, ogni bivio mi fa pensare d’essermi perso. Rido di me, immaginandomi a girare come un criceto sulla ruota fino al mattino, ma non è una prospettiva spiacevole considerando quanto presto vorrei tornare ad abbracciare i miei cuccioli. Riconosco le sbarre da cui poche ore prima ero entrato da marito; ne esco ora da padre. Spalanco i finestrini, mi lascio rinfrescare dall’aria frizzante e guido piano verso casa. Tutto sorride, sorrido anch’io.

8 Commenti a “È andata così”

  1. nonnino scrive:

    Complimenti per la trasmissione…………dei tuoi pensieri.

  2. [...] Per tutto ciò, ma soprattutto per quanti capiteranno qui in futuro animati dalla stessa ricerca casuale di calore in un momento così particolare della propria vita, Stefania e io abbiamo deciso di aprire le porte del nostro siterello familiare, finora ristretto a pochi amici e parenti. Contiene la storia della nostra gravidanza, e ora dei primi giorni del nostro bimbo. Ci farebbe piacere che la nostra felice esperienza di parto naturale ispirasse un giorno altre donne e altri mariti a recuperare dentro di sé quell’istinto ancestrale che una medicalizzazione sgarbata ha maldestramente perso di vista, rendendo tutto forse appena un po’ più sicuro, ma di certo più cinico, più industriale e spesso paradossalmente più doloroso. Raccontarlo e condividerlo è il nostro modo di essere il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo. Parole chiave: giorgio maistrello, gravidanza, parto [...]

  3. Andrea Beggi scrive:

    Grazie, ogni occassione per ricordate la mattina in cui nacque Beatrice mi riempie il cuore di gioia e gli occhi di lacrime.
    Ora sai anche tu quanto sia bello essere un papà, ed io continuo a chiedermi perchè nessuno te lo spieghi prima, quanto sia meraviglioso: è evidente che il reparto marketing della paternità non fa bene il suo lavoro.

  4. Cips scrive:

    Bè, un bel racconto emozionante e commovente, anche se dallo stile asciutto e a volte comico (il perineo…).
    Poi mi verai a dire se riuscirai ad aprire un blog per gli altri che verranno.
    Perché uno, da solo, o si stufa o viene viziato.

  5. ari scrive:

    …mi avete fatto venire i lacrimoni…….siete un trio davvero speciale, baci :-*

  6. Ivana scrive:

    Auguri ragazzi! Siete perfettamente in 3! Io e mio marito ci stiamo accingendo ad esplorare i primi cenni dell’avventura gravidanza…naturalmente siamo agli albori: le prime analisi, i primi controlli di routine, le prime paure miste a stupore puro per ciò che ci aspetta. Non manca un pizzico d’incoscenza dettata dall’amore e soprattutto tanta voglia di diventare anche noi presto in 3! Speranzosi di riuscirci presto un abbraccio formato famiglia!

  7. Barbara scrive:

    Legog solo ora via Placidasignora. Ti hointervistato mesi fa pe run pezzo su Cosmo. Che bello ri-trovarti quasi per caso papà (quasi per caso ritrovarti, non quasi per caso papà). Congratulazioni e chapeau a Stefania per il coraggio e la calma olimpica…lezione di vita!

  8. Marco Arzani scrive:

    Articolo veramente interessante.Complimenti!
    Spero in futuro di trovare nuovi post sull’argomento trattato.

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