I miei Webdays potrei riassumerli in due immagini, tutte e due fotografate – nemmeno a farlo apposta, vedi a volte la sintonia – da Stefania. La prima ritrae una signora anziana che chiede spiegazioni a un relatore che ha appena terminato il suo intervento. La seconda inquadra un bimbo che, sullo sfondo dei Webdays, si gusta con intensità il suo gelato al cioccolato.

Nella prima ritrovo la bella emozione di vedere la sala affollata e attentissima durante tutte le sessioni di Web over 60, il programma divulgativo per ultrasessantenni ospitato nella tre giorni torinese. Dài loro una ragione per utilizzare questi strumenti e qualche dritta su come cominciare – dunque non semplicemente un pc e un libretto d’istruzioni – e avrai i più convinti sostenitori e diffusori di buone pratiche (ce lo diceva Stefania: è la stessa linea di un recente progetto europeo dedicato agli anziani, che prevedeva di identificare interlocutori lontani prima di insegnare come utilizzare il pc e la Rete per dialogare con loro). Pare che questa non sia affatto una novità a Torino, dove l’offerta di tecnobadanti e corsi di formazione specializzati è piuttosto ricca e collaudata, ma ha ragione Axell quando afferma che è quella sala piena di persone non più giovanissime l’eredità più importante dei Webdays.

Resta il fatto – ne parlavamo con Antonio Sofi, ricordando un mio vecchio post e alcune idee ancora nel cassetto – che a me il rapporto tra anziani e tecnologia affascina davvero molto ed è ora che ci lavori un po’ su. Le esperienze cominciano a essere numerose (tutte le grandi città hanno ormai esperienze consolidate in proposito) ed è una ricchezza che sarebbe bene cominciare a divulgare.

La seconda fotografia ha dentro sé tutto il piacere di passare alcuni giorni tra persone belle, curiose e generose di stimoli. Domenica sera c’è stato un momento in cui, per diverse coincidenze, mi sono trovato seduto allo stesso tavolo con amici provenienti da diverse esperienze, tutte non collegate tra loro: Fabio, con cui a Trieste ho condiviso un periodo di ricerca sugli ipertesti nel laboratorio di Fileni; Pietro, che prima di arrivare ai blog è stato uno dei miei collaboratori preferiti a Internet News; Antonio, che è tra gli incontri più felici che mi abbia mai stimolato la Rete. Ma potrei aggiungere, nei giorni precedenti, Giuseppe, che per me è sempre più un fratello di bit; e Derrick De Kerckhove, sui cui libri studiavo dieci anni fa e che ancora oggi ispira, con eccezionale partecipazione d’animo, il mio lavoro; e Gaspar, di cui adoro quel mix così peculiare di slanci contagiosi, bonarietà, ferreo rigore e capacità di sintesi; e Andrea, che ogni volta che ci incontriamo mi spiace abitare tanto lontano perché sono certo che la sua compagnia faccia bene allo spirito. E tanti tanti altri, che se continuo diventa la processione dei santi.

E, in tutto questo, pensavo: ma tu guarda la rete, quella concreta e tutta umana, come riesce sempre sorprenderti, con fili diversi che si annodano all’improvviso, dando un senso più ampio al percorso di ciascuno. Sabato c’è stata un’interessante domanda di Effe, durante l’intervento di De Kerckhove, che – senza fare molta giustizia alla sua stimolante impertinenza (ma magari lui mi aiuterà nei commenti a ripristinarne il senso) – potrei sintetizzare così: che fine fa l’identità in questo universo aperto di contenuti ricombinabili del Web, che prescindono sempre più dal contenitore a cui appartengono ed esistono in funzione del personale percorso di senso di chi li consulta? La mia risposta, citando Bateson e la sua idea di informazioni che scaturiscono da differenze, sarebbe stata che se anche ci rimettiamo progressivamente un po’ di nome e un po’ di faccia, mettiamo in circolo qualcosa di molto più importante, ovvero il nostro sguardo sul mondo, il nostro mondo di essere, le nostre associazioni mentali. Fomentiamo informazioni con le differenze che rendono ciascuno di noi unico. E il premio, che ancor oggi è l’ambitissimo quarto d’ora di celebrità, domani potrebbe essere la partecipazione, discreta nella forma ma integrale nella sostanza, alla più ampia e democratica modalità mai esistita di fare parte del modo-in-cui-vanno-le-cose-in-questo-mondo.

L’impressione positiva, nel piccolo spaccato di Rete incontrato a Torino, è che sempre più persone si riconoscano in questo modo di concepire il proprio impegno in Rete (dove Rete è tutto fuorché un ambiente virtuale e alternativo alla realtà). Chi sale su un palco lo fa tutto sommato con spirito di servizio: io stesso, se mi è capitato di parlare, è solo perché di mestiere faccio divulgazione, ovvero raccolgo e rimetto in circolo con ordine le idee di tante persone. La eventuale e trascurabile attenzione sulla mia persona è solo funzionale a mettere chi ascolta (o chi consulta in seguito i materiali dell’incontro) nelle condizioni di iniziare un percorso dentro uno spicchio di quella che è già a tutti gli effetti conoscenza condivisa.

Dopo gli interventi di Granieri e De Kerckhove, che hanno l’abitudine di volar alto anche se parlano di tag e post, Stefania si gira, mi guarda con gli occhi illuminati di chi ha messo insieme i pezzi, e mi dice: «È tutto un ritorno alla visione induista: tutto è interconnesso, tutti siamo parte di un tutto e solo l’unità delle cose porta alla completezza». Ecco, appunto.