Amichetta di Giorgio, 5 anni: “Io ho imparato ad andare in bici senza le rotelline a 5 anni!”
Giorgio, 6 anni: “Anche io ho imparato a 5 anni”
Gea, 2 anni: “Ance io ho palato a 5 anni!”
Amichetta di Giorgio, 5 anni: “Io ho imparato ad andare in bici senza le rotelline a 5 anni!”
Giorgio, 6 anni: “Anche io ho imparato a 5 anni”
Gea, 2 anni: “Ance io ho palato a 5 anni!”
- Mamma, vuoi sapere come si dice “c’era una volta” in inglese?
– Come si dice, Giorgio?
– Uàn sapòn a tàim.
– Beh…
– Sì, ma perché il sapone, mamma?
Dai nonni Giorgio ha visto Il circo di Charlie Chaplin. Tornando a casa ci rimugina su.
– Papà, ma una volta era tutto in bianco e nero?
– I film, dici? Sì, una volta i film erano erano tutti così, poi è arrivato il sonoro e più tardi ancora il colore.
– No, ma io dico tutto, il mondo: era tutto in bianco e nero?
– No, Giorgio, il mondo è sempre stato a colori come lo vedi oggi. Era il cinema che non era capace di registrare i colori.
– (poco convinto) Ah.
Incontriamo una vicina di casa.
– Tào!
– Ciao!
– Oh, buongiorno! Ma guardali questi due bimbi, ma che carini, ma che bravi, ma che dolci, ma che simpatici, ma che teneri! Ma guardala questa bimba con gli occhiali da sole! E tu, Giorgio, ma come stai bene con i capelli corti. Ma siete sempre così splendidi, chissà come saranno contenti mamma e papà?!
– In verità papà dice che siamo dei teppisti rompiballe.
– Ah.
– Eh.
– Tào!
- (canta) … dov’è la vittoria, le porga la chioma, ché schiava di Roma FABIOLA creò!
– …
– …
– …
– Papà?
– Sì, Giorgio?
– Ma Fabiola cosa c’entra?
Stefania va a prendere Giorgio a scuola. Mentre escono insieme ad alcuni compagni, le suona il cellulare e si intrattiene per qualche minuto in conversazione con un’amica inglese. Sentendola parlare con lingua e accento stranieri, un amico di Giorgio si ferma a lungo a osservarla sgranando gli occhi. Poi si rivolge a Giorgio: «Ma tu e la tua mamma parlate inglese quando siete a casa?». «Noo, io sono normale».
- Allora, Giorgio, stamattina sei stato bravo e collaborativo con la mamma, come ti avevo chiesto?
– Beh… (pausa) Meglio che potevo!
Vocabolario essenziale per avere a che fare con me, che mio fratello era un dilettante in confronto.
Bàmba = ti prego, avvicinami il bavaglino che vorrei evitare di sporcarmi (in alternativa, a seconda del contesto: e ripigliati ‘sta bavaglia, che ho finito; oppure non ho finito affatto, ma sporcarmi è diventata un’opzione oltremodo interessante).
Bùm = è caduto, l’ho lanciato, ha fatto rumore (divertente, ‘spetta che lo rifaccio, magari più forte).
Bvìa (o anche ‘namo) = cielo, non sembra anche voi che si sia fatto tardissimo? Orsù, genitori, andiamocene, procediamo, andiamo via di qui. Via via, andiamo via.
Babài = bye bye, ciao, te’ssaluto, non ho nient’altro da aggiungere, me ne vado, stammi ‘bbene.
Chèllo = quello, proprio quella cosa là, quella che hai messo lontano perché io non ci arrivassi: la desidero ardentemente, vorrei che entrasse in mio possesso immantinente. Quello ho detto! (ma come non capisci quale, va’ che sei proprio lento eh?!).
Chètto = questo, voglio proprio questo, inutile che ci provi con chello, io è questo quello che voglio, non fare il finto tonto, genitore, esaudiscimi per favore sennò urlo.
Cìccì-o = dopo il tlà-tlé, di cui guarda caso è derivato, è la mia grande passione. Il formggio: ne mangerei in continuazione. Avete mica del ciccì-o, già che siamo?
Còa (in versione evoluta: a-còa) = di tutte le parole che ho imparato, ho capito che questa è la più importante di tutte: ancora, ancora, ancora. Sia cibo, un gioco, qualcosa di divertente, se fai la faccia supplicante e la smorfia furbetta e dici ancora, ti accontentano sempre. Sennò piango, ovvio.
Dàmba = la prima parte del corpo che ho imparato, con cui gioco sempre quando mi cambiano il pannolozzo. La mia gamba: non è divertente, la mia gamba? Io rido sempre quando la vedo.
Dòlli = sta nel passeggino che mi ha regalato la mamma, le dò il biberon che mi ha portato Babbo Natale, la porto in giro per la casa, la sbatacchio di qua e di là, ma con affetto. È la mia bamboletta, la mia dolly, come la chiama mamma. Una qualunque delle ventisette che mi ritrovo in giro per casa, non importa, basta faccia quello che dico io.
Èpo = me lo apri, per favore? Anzi, più correttamente: aprimelo subito, ho detto! Forza, su che devo mangiarmelo/giocarci/accedervi con urgenza. Open, open, dice sempre la mamma.
Fiù = è per te, for you, tieni, toh, prendi. Eddai, non l’hai ancora perso? Perché non lo prendi? Su’ afferra! (Ops, è caduto.)
Gior-gio = il mio fratellone, chi altri?
Gìo-gìo-tondo = ma come fate a starvene sempre lì seduti come pappamolle, quando si può fare il gioco più bello dell’universo, che è girare girare girare intorno a sé finché non gira anche la testa? (Funziona solo se accompagnato dalla omonima filastrocca, ovvio.)
Peppo = paper, la carta, ma in particolare la carta igienica, con cui mi piace giocare mentre sono in attesa di espletare i miei bisognini sul water. Perché è questo che si fa sul water, no? Giocare con peppo, strapparla, appallottolarla, buttarla, prenderne altre, srotolarla tutta appena mamma o papà si distraggono. Che altro se no?
Pompòm = snaturato di un padre che mi stai conducendo fuori, hai forse dimenticato che fa un freddo cane? E allora perché non mi prendi il berretto (quello col pon-pon, ovviamente)?
Sciòsci = occhio adesso alle parole con la sc, che sono le mie preferite, quelle con cui vi metto alla prova ricorrendo a sottili giochi di consonanti e vocali. Sciosci è lo yogurt, la mia passione almeno finché si arriva al secondo cucchiaino (poi potete anche tenervelo, collezionando barattoli aperti in frigorifero).
Sciùscia = le signorine per bene sanno quando è il momento di chiedere scusa, e lo fanno a modo loro, lasciandoti col dubbio che sono dispiaciute sì, ma forse in realtà è soltanto un languorino e ci starebbe proprio bene uno yogurt per smorzare la tensione.
Sòsci = non so perché li chiamano calzini antiscivolo, se poi mi scivolano via in continuazione (non è vero, papà, non sono io che me li tolgo!). Allora devo sempre andare da mamma o papà a farmeli rimettere, indicandoli come li chiama sempre la mamma, socks. Sosci, appunto.
Sciùscio = è finito, non ce n’è più, detto in genere di cibo e nella duplice sfumatura “avete visto come sono stata brava?” oppure “si può sapere che cosa aspettate a riempirmi quel piatto di nuovo?”.
Tlà-tle = il latte (di riso), mia grande passione, nonché – in questo caso ripetuto ossessivamente fino a sfinimento dell’adulto di riferimento – desiderio irrefrenabile delle ore periferiche della giornata.
Tòp = basta, non ne voglio più, gradirei non mangiare più questa sbobba, sono sazia. Preferirei terminare questo gioco, smettila di insistere per favore. Insomma, come dirtelo: stop, stop.
Tòppo = il mio adorato cappotto, che ora in realtà è diventato giaccone, ma per me resterà per sempre cappotto, in onore del primo scafandro invernale con cui m’hanno ricoperto. Datemi il mio cappotto, dico quando dobbiamo uscire, incrociando le braccia e battendomi sulle spalle da coprire.