Finisco Giornalismo e nuovi media immaginando il giornalismo sempre meno industria e sempre più artigianato, nelle cui botteghe dovranno formarsi non soltanto i garzoni e gli apprendisti, ma trovare motivo di stimolo e di aggiornamento anche i bricoleur della domenica. Una professione da condividere, insomma, che tra nuovo vigore anche da luoghi – analogici e digitali – di socializzazione, di apprendimento e di sostegno a tutte le esigenze contemporanee della società in fatto di informazione e di accesso alla conoscenza.
Leggo oggi – grazie a Lsdi – di un quotidiano del Connecticut, The Register Citizen, che in un certo senso prende alla lettera proprio quest’idea aprendo il suo newsroom café: si tratta di un luogo dove bere un caffé, collegarsi gratuitamente a internet, consultare 120 anni di archivi dei giornali locali, contribuire alla bacheca della comunità, interagire attivamente con la redazione e partecipare alle riunioni organizzative dei giornalisti. Quello che fa o dovrebbe fare più o meno ogni buon giornale locale, ovvero aprirsi alla comunità, ma ora istituzionalizzato e declinato in una forma sociale residente e sempre più in simbiosi con i cittadini.
Poi ci penso e mi viene in mente che una cosa del genere esiste perfino nella mia città. Sono gli Studios di Pnbox.tv, la web tv fresca vincitrice di un teletopo, che ha insediato la sua sede di produzione nella bastia di un castello all’immediata periferia di Pordenone, integrandola con un ristorante e un bar. La web tv dà alla città un luogo di socializzazione e svago, dove vengono organizzati spesso eventi e incontri; in cambio – la faccio semplice, ma il progetto è raffinato e da studiare – ottiene accesso preferenziale a molto buon materiale con cui nutrire di contenuti il proprio archivio televisivo e si dota di un serbatoio inesauribile di idee e di persone dentro la redazione.
Quando ho comiciato a fare questo mestiere, da ragazzino, formalmente non potevo nemmeno mettere un piede dentro alla redazione del giornale locale con cui collaboravo, per una serie di implicazioni sindacali che si capiscono soltanto quando sei dentro a questo mondo. Qui si sta dicendo invece che la redazione può essere un luogo sociale, riempirsi di gente, generare nuovi nodi della rete locale, trovare modi alternativi per avere accesso alle idee e alle persone. Che è un po’ la base per un hub giornalistico locale così come lo immaginavo qualche settimana fa a Roma. Dal giornale che va dove c’è la gente al giornale che diventa il luogo dove la gente si incontra: un bel salto.
Emanuele
Dic 27, 2010 -
Per uno che vuole intraprendere la professione a pieno ruolo, la domanda è: perché farlo?
Voglio dire, se questi sono i presupposti – e visto il dispendio economico e di tempo da impiegare per accedere al Santo Ordine – per quale motivo professionalizzarsi? O meglio, con quale prospettiva?
L’idea di un giornalismo aperto a tutti e sempre più vicino al web è auspicabile per l’informazione ma per un giornalista di professione le cose come si mettono?
Di certo il ruolo del giornalista si circoscriverà ancora di più, ma più probabilmente dovrà ridefinirsi.
Sergio
Dic 27, 2010 -
@Emanuele, perché farlo? Perché la società sta cambiando e se il ruolo del giornalista è servire la società ha più senso che sia quella contemporanea che quella del XX secolo. Quanto al destino del professionista, io continuo a vedere prospettive: in un mondo dove vengono prodotte sempre più informazioni e da parte di chiunque ci sarà sempre più bisogno, dal mio punto di vista, di qualcuno che in modo stabile, non occasionale, non amatoriale, sappia creare percorsi di senso nel caos creativo della rete. Non in competizione, ma in simbiosi con il filtro collettivo a cui danno vita milioni di persone abilitate nelle loro opportunità di espressione pubblica dalla rete stessa.
Le cucine casalinghe mettono forse in discussione l’esistenza dei ristoranti? Allo stesso modo io l’esigenza di un professionista dell’informazione che con strumenti tecnologici e culturali ad alto livello sa garantire presidi professionali e continuativi nell’elaborazione del flusso di informazioni io la sento. Quello che viene meno della professione, e qui sta la crisi di questi anni, è il modello industriale esasperato dei decenni scorsi. Ma non l’essenza del giornalismo e la sua necessità, e di qui la mia provocazione sulla necessità di ripensarsi artigiani. Con tutti i vantaggi, ma anche i rischi, che questo passaggio comporta.
Emanuele
Dic 27, 2010 -
E’ proprio alla provocazione che alludevo. Ovvero: ripensarsi artigiani, fattivamente, che vuol dire?
Ognuno di noi è diventato nodo, può accedere a contenuti e produrne sua manu. Il giornalista allora dovrà avere qualcosa in più.
Prima era la capacità espressiva, l’accesso alle informazioni e i canali di produzione. Ora è competenza ad altissimo livello e strumenti tecnici di elaborazione dati?
Sono d’accordo col fatto che il giornalista debba produrre percorsi di senso, essere una guida in simbiosi col filtro collettivo; ma questa simbiosi potrebbe trasformarsi in dipendenza? Prima forse aveva più senso perché il modello era verticale: io vendo, tu compri – mentre ora tutti potenzialmente possono produrre. Resta però il fatto che chi fa informazione deve creare profitto, quindi anche nel caso del web deve avere inserzionisti, perciò deve essere cliccato e dunque deve scrivere cose che interessano il grande pubblico. E’ una riflessione che mi viene guardando il web. Pensi a gmail: scrivi ad un amico che sei in “vacanza” e dopo l’invio ti compaiono annunci su offerte viaggi.
Oppure l’alternativa radicale, un po’ apocalittica, è quella di redazioni giornalistiche che svolgano funzioni di mera selezione e gerarchizzazione, tralasciando la produzione – a cui invece già penserebbero in milioni, tra normali cittadini e giornalisti d’agenzia. Ipotesi che getto pensando al rapporto odierno di forte dipendenza tra agenzie, tg e quotidiani (pensi solo a come l’Ansa seleziona e gerarchizza e come il giorno dopo esce il Corriere).
Mi dispiace vessarla con tutte queste domande, ma l’idea di un giornale iperlocale piace anche a me e vorrei capire un po’ meglio come definirla nel contesto presente.
Sergio
Dic 27, 2010 -
> ripensarsi artigiani che cosa vuol dire?
Vuol dire che non si è più ingranaggi di un’informazione precotta, un tanto al chilo, prodotta in serie per massimizzare target e generare utili a tutti i costi, ma si vive – come gli artigiani – di pezzi unici, di piccole commesse, di nicchie di reputazione e di settori in cui l’accreditamento paga, magari anche solo a lunga scadenza.
> la simbiosi col filtro collettivo può diventare dipendenza?
Ha generato dipendenza il rapporto con le persone finora? Non credo, e se lo è, si tratta della dipendenza ontologica del mestiere in fin dei conti. Solo che oggi questo rapporto può essere più diretto che mai, l’intermediazione assottigliata, le potenzialità di sintesi espanse. Slegherei il discorso dal profitto (che resta il nodo cruciale, ma che temo dovremo cominciare a cercare in luoghi nuovi e in processi indiretti, non adeguando semplicemente quelli di processi mediatici precedenti). E uscirei anche dalla logica del successo calcolato in numeri assoluti e in compiacenza di un target, perché è una strategia di breve periodo che – già oltremodo esasperata su carta e in tv – in rete non dura.
> redazioni giornalistiche che svolgano funzioni di mera selezione e gerarchizzazione
Qui il rischio è guardare il problema da un punto di vista ancora molto radicato nei media di massa. In rete cambia la prospettiva sia del far selezione, sia del far gerarchia, sia del produrre informazione. Una delle (tante) implicazioni è che l’iperspecializzazione, in una logica di apertura e collaborazione, non è un male. Meglio un sito che fa solo selezione, ma la fa benissimo, che cento siti che fanno un po’ di produzione superficiale e una selezione altrettanto superficiale. Il problema non è più riempire spazi e vendere il prodotto, ma creare unità di contenuto che abbiano rilevanza per le persone (in singole nicchie di valore o a livello generale, questo è relativo). Tutto il resto, anche come trasformare la posizione nella rete e la reputazione maturata, viene in secondo piano.
Emanuele
Dic 27, 2010 -
Io non so quanto possa venire in secondo piano la propria posizione per le grandi come repubblica o il corriere della sera. Di certo in un’ottica individuale, di nicchia, artigianale appunto, il discorso è plausibile. Fino ad ora la gente non ha creato dipendenza, però non siamo ancora giunti al punto di avere tutta (per quanto si possa) l’informazione in rete. Il suo discorso è auspicabile ma sembra più fattibile per dei freelance che per i grandi quotidiani, che restano pur sempre delle aziende con tutte le esigenze e i meccanismi del caso (targetizzazione, fidelizzazione, standardizzazione dei processi produttivi) anche nel web. Ci si augura davvero, per l’informazione tutta, che il successo non lo facciano più i numeri in rete – e mi piacerebbe se riuscisse a chiarirmi in che modo questo potrà accadere.
Sergio
Dic 27, 2010 -
Stiamo tagliando discorsi complessi con l’accetta, per un approfondimento di più ampio respiro la rimando al libro. Però di nuovo: lei pensa a una Repubblica.it o a un Corriere.it come sono stati finora e come il modello di massa vuole che siano. Il che va benissimo e ha senso, per carità, ma non è il punto di arrivo a lungo termine che ci suggerisce la rete.
Quanto ai numeri è una questione di conformazione dell’ecosistema, che essendo strutturato in modo reticolare e orizzontale non dà valore agli stessi indici assoluti di un sistema gerarchico e verticale come quello alla base dell’editoria o del broadcasting tradizionale. Le connessioni tra i nodi, le sfere di influenza, la conformazione dei cluster incidono molto più del numero di visite ai siti o del numero di persone iscritte al nostro profilo sui social network. Questo spiega, per esempio, perché la pubblicità di derivazione tradizionale non funzionerà mai in modo significativo, al di là delle fiammate (comunque contenute) dovute alla crescita di interesse per internet. Sono metriche che stiamo appena imparando a maneggiare, di cui per ora ci manca proprio l’elemento fondamentale: un modello di sfruttamento economico sostenibile e soddisfacente per tutti.
Emanuele
Dic 28, 2010 -
La domanda che ponevo, in realtà, non è sulla possibilità o meno che le aziende si ridefiniscano ma su come questo sia possibile. Di certo se non cambieranno, moriranno. Ma riusciranno a cambiare?
La ringrazio comunque per le risposte (il libro lo sto leggendo).
Sergio
Dic 28, 2010 -
Sono di sicuro il soggetto sottoposto alle maggiori tensioni, potenzialmente dirompenti. Possono cambiare, ma devono andare incontro a un ripensamento coraggioso e molto profondo. Ci riusciranno solo le organizzazioni dotate di grande senso del mestiere oppure di leadership illuminate e carismatiche. Per il resto, temo, sarà un bagno di sangue. E, naturalmente non ce lo possiamo permettere. Il problema principale che abbiamo, per impedire questo, è avere spazi di discussione e divulgazione laica e lungimirante, che l’Italia sta storicamente rifiutando a tutti i livelli.
Luciano61
Dic 29, 2010 -
E iniziare ad abolire l’Ordine dei Giornalisti (ennesima Casta italica!) e il finanziamento pubblico ai giornali (altra voragine dei soldi pubblici verso giornali e/o fogli letti solo da parenti e amici di chi ci scrive sopra!) non sarebbero già i primi passi in avanti verso questo mondo glocal dell’informazione?
Ma, alla fine, ogni bel discorso è solo ‘pro domo sua’ (alias spot) del proprio libro scritto in merito…
🙂
Sergio
Dic 29, 2010 -
Nessun problema con l’abolizione dell’Ordine, né con l’abolizione del finanziamento pubblico, per quanto mi riguarda.
Emanuele
Dic 29, 2010 -
Il mio dubbio è che spazi di discussione non se ne vogliano proprio perché è la cultura ad imporlo. Che poi bisognerebbe anche chiarire cosa si intende per spazi. Finché la cosa rimane ancorata a questa o quella conferenza, pur importante per gli addetti, non credo sia possibile un cambiamento profondo, sociale.
Sir Robin
Gen 22, 2011 -
Chapeau per lo scambio! E giusta osservazione questa ultima di Emanuele. Anche io trovo che la chiave di volta sia da individuare proprio nella produzione di senso e nella sua aggregazione ma è anche vero che, per ora, ciò appare essere poco più dell’indirizzo di un cammino.
Fino a pochi anni fa l’80% del flusso di notizie del pianeta era gestito completamente da quattro grandi agenzie occidentali, le due americane Associated e United press, la francese France Press e la britannica Reuter. Le cose sono un pochino cambiate, lo stanno ancora facendo e mi viene da dire: grazie al Cielo.
Adesso può capitare di leggere che in Cina “[…]i numeri diventano grandi. La metà della popolazione adulta cinese legge libri; di questi circa il 25% usa strumenti elettronici. Stiamo parlando di 220 milioni di lettori. Tra gli ebook-addicted risulta che circa 120 milioni leggono anche su cellulare mentre 25 milioni leggono solo su cellulare.”
Il resto è qui. No? Solo quelli su cellulare…
Domanda (che si applica allo specifico ma, per così dire, ha una vocazione concettuale estesa ad ogni sua plausibile declinazione): continueremo ad essere reciprocamente alieni (a pare le facciate) oppure anche grazie agli strumenti che la tecnologia ci mette in mano (sia hardware che software) molte barriere potranno andare a cadere? Siamo indirizzati ad un livellamento onnicomprensivo verso l’alto (per la maggior parte delle soggettività)? Nella ricchezza, nei diritti, nell’accesso alle risorse etc… Bella domanda, mi rendo conto.
Concludo con un piccolo suggerimento. Ho da poco finito di leggere un libro, “Il complotto contro l’America” di Philip Roth, che mi ha molto impressionato proprio per queste faccende: vi si racconta una storia americana ipotetica (filonazista dal 1940 con Lindbergh presidente) raccontata quasi esclusivamente attraverso la vicenda quotidiana di una famiglia ebrea del New Jersey (più iperlocale di così!) eppure la struttura risulta particolarmente efficace nel restituire un’epoca nel suo insieme (inventata, ma con un alto tasso di applicabilità). I fatti cominciano a precipitare proprio quando uno sponsor oscura un programma radiofonico “contro” seguito da una comunità di 25 milioni di ascoltatori…
Beh, seguirò il consiglio e mi procurerò una copia di “Giornalismo e nuovi media” :-).
Saluti.
Sergio
Gen 24, 2011 -
Sir Robin, non sono sicuro di avere una risposta all’altezza della domanda. Siamo destinati semplicemente a giocarci nuove sfide, basate su nuovi processi e sullo sfondo di scenari diversi. Non mi immagino livellamenti, piuttosto moltiplicazione delle opportunità e miglior rappresentazione della complessità. In termini di impatto sulla società non siamo di fronte soltanto a una nuova televisione, sta accadendo qualcosa di più simile alla diffusione della stampa. Dunque immaginare un punto di arrivo – sempre che di punto di arrivo si possa mai parlare – sulla base della società e dei rapporti interpersonale di oggi rischia di essere un po’ come disegnare al buio su una tela in movimento.
Luciano61
Gen 24, 2011 -
Ma Sir Robin è per caso il famoso eroe glocal Robin Hood?
🙂
Sir Robin
Gen 25, 2011 -
@ Luciano61
🙂 No, è il Sir Robin di Monty Python (dal film Monty Python e il Sacro Graal). Se non lo ha visto mi permetto di consigliarlo vivamente.
@ Sergio Maistrello
Mi rendo conto, ma la mia voleva essere più che altro una suggestione. E’ un fatto che negli ultimi tempi si sente citare molto lo spauracchio della globalizzazione (così, come fosse un’entità maligna da brandire davanti al viso) per significare una specie di ineluttabilità nella perdita di determinati privilegi che pure ci sono appartenuti (a chi?) negli ultimi decenni.
Il discorso sarebbe lungo, ma, sostanzialmente, io non lo credo. Non sono proprio quel che si dice un tecno-entusiasta, però ho fiducia nelle possibilità di emancipazione (e di accrescimento cognitivo) della tecnologia tout court e in quella dell’informazione in particolare.
D’altra parte, sembra sempre che questa ci conduca davvero verso punti di non ritorno, ineludibili (la radio di cui sopra). Gli attuali scenari da considerare danno una punta di vertigine, i dati della Cina che ho riportato (sperando che siano corretti) almeno a me danno da pensare. Eppure, con tutte le cautele del caso, non ci dovrebbe essere nulla di più e di meglio da augurarsi se non un aumento del numero di individualità partecipanti al grande discorso che quotidianamente percorre la rete. Tutto qui. 🙂
LIBERO
Feb 2, 2011 -
Adoro i blog a lungo silenti…
Vuol dire che la realtà vince ancora sulla falsa virtualità dei blogger!
🙂
Il giornalismo che verrà, appunti da Firenze » Sergio Maistrello
Gen 24, 2013 -
[…] Uniti, le sedi di alcuni giornali iperlocali sono diventati centri civici, luoghi di ritrovo, bar. Succede anche in Italia, in alcune web-tv. Il giornalismo sta salendo a un livello logico superiore, dentro la sfera […]