È stato bellissimo, abbiamo combattuto battaglie, eravamo invasi di speranza. Ma ne è poi valsa la pena, mi chiedeva tra le righe stamattina un vecchio amico, gran compagno di precoci avventure digitali, mentre riguardavamo foto di Giuseppe Granieri – che dolorosamente stiamo salutando questa settimana – e degli anni in cui tanti di noi si sono conosciuti e hanno intrecciato progetti di ricerca, di lavoro, a volte di vita.
La domanda è rimasta tra le righe della chat, ma mi ha lasciato stordito a lungo, anche perché risuona col senso di resa che confesso mi ha impressionato ritrovare in tante pur commoventi e affettuose dediche a Giuseppe, un senso di resa manifestato spesso proprio da chi più si è speso e ci ha creduto. È stato bello. Meraviglioso. Abbiamo dato forma insieme a questi spazi sociali. Abbiamo goduto della prossimità con menti purissime e beneficiato della spinta di talenti straordinari. Ma oggi è tutta un’altra cosa, questi spazi non ci somigliano più, non c’entriamo più nulla, se l’è presi il diavolo. Quasi un rimorso d’aver tifato il futuro sbagliato.
La verità, quanto meno la mia, è che abbiamo combattuto la battaglia culturale del secolo e l’abbiamo sostanzialmente perduta, con vittime. Ma i presupposti e gli esiti sono ancora tutti là. Al contrario, crescenti evidenze suggeriscono che molte delle opportunità per cui ci siamo spesi sono infine state colte. Magari con un ritardo ingiustificabile, magari incompiute o difettose, magari inserite nella cornice inadeguata, magari fraintese, però sempre più spesso colte. Non era finita, la battaglia: siamo noi che abbiamo abbandonato il campo. Che non abbiamo saputo adattarci al cambiamento di scala su cui noi stessi mettevamo in guardia gli altri. Che siamo scappati inorriditi quando le masse che sognavamo hanno cominciato a invadere sul serio gli spazi residenziali della rete. Come se avessero dovuto riconoscerci qualche rendita di potere, baciare le mani ai fondatori, chiedere permesso.
Eravamo di nuovo niente e piuttosto che rimboccarci le maniche da capo e provare a indirizzare quel movimento caotico e improvvisamente gigantesco, abbiamo preferito ignorare o peggio deridere i nuovi arrivati. Comunque mollare. Quando il gioco si è fatto vero, quando c’era da tenere la posizione (culturale, molto prima che politica o tecnologica) ce la siamo dati a gambe. Quando il diavolo ha bussato, gli abbiamo aperto e gli abbiamo detto beh, vedi tu se riesci a cavare qualcosa di buono da questo casino. Auguri.
Certo s’era fatta una certa età e dovevamo cominciare a pensare a mantenere noi stessi e le nostre nuove famiglie. L’ebbrezza del progresso nel suo avanzare e la gloria effimera condita di pacche sulle spalle e free drink al barcamp non potevano bastare più, serviva cominciare a remunerare seriamente le nostre competenze, quali che fossero. E su questo piano non abbiamo mai saputo proporre un modello alternativo convincente, c’è poco da fare.
Chi è rimasto spesso spesso ha accusato le ingiurie degli anni, perché le espressioni di sé di uno sconfitto che abita gli spazi digitali mentre attraversa le crisi della mezza età forse sono ancor più impietose delle rughe sul volto.
Inoltre papà non ha certo giocato pulito con noi. Ricordo sempre quel tale, che considero paradigma della classe dirigente di fine millennio, vantarsi di aver conquistato la propria posizione ammazzando – simbolicamente, s’intende – i suoi padri. E di guardarsi bene dal farsi da parte, finché qualche giovane abbastanza capace e temerario non fosse riuscito nell’impresa di ammazzare lui, sempre simbolicamente. Settantenni e ottantenni ancora sulla cresta dell’onda, abbarbicati con ogni mezzo alla propria posizione di influenza, sostenuti da una rete pavida di convenienze e di interesse, pronti a stroncare sul nascere e a delegittimare ogni idea che possa mettere a repentaglio la conservazione del ruolo. Ho pensato a lungo a quelle parole. È una visione della comunità che sta alla mia come l’acido muriatico sta all’aceto balsamico, ma contiene almeno una verità.
Non siamo stati abbastanza bravi. Avevamo ragione, avevamo gioia, avevamo idee, avevamo spirito civico e senso del nostro tempo, ma non bastava, non basta mai: dovevamo anche dimostrarlo e renderlo talmente evidente e sostenibile da imporlo e travolgere tutti i giochetti più o meno puliti con cui i nostri padri culturali, economici, professionali e politici ci hanno deliberatamente sabotato, rallentato, depistato, sminuendo noi e la portata della visione che offrivamo. Non c’è nulla di biasimevole o ignobile nella sconfitta. Al contrario, la gran parte degli eroi nel mio pantheon personale sono straordinari sconfitti. Ma la sconfitta va riconosciuta e metabolizzata. Noi in fondo non l’abbiamo fatto, ancora. Altrove hanno saputo inseguire compromessi realistici che, un passo alla volta, avvicinassero la società alle opportunità del presente. Altrove sono diventati adulti. Qui in fondo siamo rimasti spesso ragazzini rancorosi, illusi o disillusi a seconda del percorso individuale che ne è seguito.
Dunque possiamo concludere che non ne è valsa la pena? Io non credo. A pensarci bene è una valutazione che manca di rispetto alla nostra storia, alla sincerità delle nostre intenzioni, alle nostre esplorazioni coraggiose in un mondo ignoto e creativo. Ne è valsa eccome la pena. Ha forgiato la maggior parte di noi, ha forgiato una generazione, ha forgiato un’ideologia, molto più umanistica che tecnologica, che certo ora andrebbe evoluta e messa a punto, ma che avrebbe potuto contribuire a correggere le esasperazioni dell’unica idea occidentale di società ancora in circolazione, con l’eccezione forse dei movimenti neo-ambientalisti, ovvero la società dei processi di massa e del consumismo. Per di più nel suo momento più pericoloso: il declino. Non ne abbiamo giovato? Siamo rimasti precari irrisolti senza certezza del futuro? Può essere, ma è il destino che a un certo punto ci siamo scelti, e io anche nei giorni di maggior sconforto non riesco proprio a rinnegarlo.
È importante che cominciamo a dirci queste cose sia per fare i conti col nostro passato sia perché un nuovo salto di paradigma, ancor più gigantesco, ci sta investendo. L’intelligenza artificiale promette di fare al sistema operativo della società quello che già gli ha fatto internet, solo in un ordine di magnitudine superiore. Auspicabilmente porterà con sé anche una nuova generazione di pionieri ed entusiasti sperimentatori, che mi aspetto stavolta possa trovare alleati nella nostra. Ma se neghiamo perfino di essere stati quello che siamo stati, se rinneghiamo le nostre origini, se non viviamo l’orgoglio del testimone da passare avanti a qualcuno che magari avrà più chance di noi di riuscire nell’impresa di risolvere i grandi problemi delle nostre comunità, finiremo per diventare anche noi padri rancorosi e ostili. Senza nemmeno le rendite di potere a giustificazione.