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Il blog di Sergio Maistrello dal 2003

Marzo 24 2024

Ehi tu. Guarda che ti ho visto, piccoletta. Che ti aggiri per casa rubando ogni residuo di infanzia con la determinazione bonaria di chi pensa fosse anche ora, e ricevi lettere dal distretto sanitario per ricordarti che mica hai più diritto alla pediatra. Ma come ti permetti, dico io?

Lo riconosci anche tu il confine intorno a cui saltelli, ora di qua ora di là, un po’ piccola e un po’ grande, un po’ ingenua e un po’ scaltra, un po’ incerta e un po’ indipendente, un po’ spensierata e un po’ persa nei primi pensieri lunghi? Ti capita ancora di irrigidirti per la frustrazione, come quand’eri bambina, ma sempre più spesso te ne accorgi da sola e finisce che ti scappa da ridere anche al colmo della disperazione. E io sorrido con te, perché penso che forse sarà proprio l’ironia, che pure non ami perché la riconosci arma, a salvarti dai giorni bui.

Conosciamo ogni tuo muscolo, osso, legamento, perché la lotteria quotidiana dei crampi, dei risentimenti e delle contusioni è un rito che precede perfino il saluto, essendosi ormai evidentemente e irrimediabilmente compromessa la perfezione del giorno. E mentre te ne facciamo parodia, mi chiedo se in fondo questa esasperata propensione alla rilevazione e all’analisi magari un giorno non ti sarà alleata nel leggere le pieghe del mondo che attraverserai.

Intanto badi ai tuoi interessi con la sagacia del venditore di almanacchi, e l’almanacco alla fine a noi lo rifili quasi sempre. Non concepisci l’ingiustizia, a meno che non avvantaggi un pochettino anche te. E hai capito che per ricevere si deve prima dare, così sei sempre molto attenta ai desideri degli altri, coltivando la speranza che poi anche gli altri facciano altrettanto. E siccome l’esercizio del dono rende migliori, stai diventando una persona attenta e generosa, capace di celebrare i legami con spontaneità e creatività. Per cui è sempre più bello provare orgoglio.

Chiaramente ti piace ancora molto il gelato al cioccolato, intorno al quale ruotano una fitta rete di complicità familiari, itinerari indotti, uscite strategiche, amicizie solidali, mentre hai sempre più curiosità per il modo in cui si preparano le cose che mangi, a cui ora mancherebbe soltanto il coraggio di scoprire gusti nuovi (anche per dare un po’ di tregua alla noia – o all’ansia – di chi ti prepara i pasti).

Ehi tu, ladruncola di infanzia che insegui i pezzettini della tua identità in giro per luoghi e persone della tua quotidianità e poi ti rifugi nella tua camera per provare a metterli insieme come un puzzle rompicapo (o, più probabilmente, per vedere una serie da adolescenti sul telefonino): buon compleanno dal tuo papà.

Marzo 13 2024

È stato bellissimo, abbiamo combattuto battaglie, eravamo invasi di speranza. Ma ne è poi valsa la pena, mi chiedeva tra le righe stamattina un vecchio amico, gran compagno di precoci avventure digitali, mentre riguardavamo foto di Giuseppe Granieri – che dolorosamente stiamo salutando questa settimana – e degli anni in cui tanti di noi si sono conosciuti e hanno intrecciato progetti di ricerca, di lavoro, a volte di vita.

La domanda è rimasta tra le righe della chat, ma mi ha lasciato stordito a lungo, anche perché risuona col senso di resa che confesso mi ha impressionato ritrovare in tante pur commoventi e affettuose dediche a Giuseppe, un senso di resa manifestato spesso proprio da chi più si è speso e ci ha creduto. È stato bello. Meraviglioso. Abbiamo dato forma insieme a questi spazi sociali. Abbiamo goduto della prossimità con menti purissime e beneficiato della spinta di talenti straordinari. Ma oggi è tutta un’altra cosa, questi spazi non ci somigliano più, non c’entriamo più nulla, se l’è presi il diavolo. Quasi un rimorso d’aver tifato il futuro sbagliato.

La verità, quanto meno la mia, è che abbiamo combattuto la battaglia culturale del secolo e l’abbiamo sostanzialmente perduta, con vittime. Ma i presupposti e gli esiti sono ancora tutti là. Al contrario, crescenti evidenze suggeriscono che molte delle opportunità per cui ci siamo spesi sono infine state colte. Magari con un ritardo ingiustificabile, magari incompiute o difettose, magari inserite nella cornice inadeguata, magari fraintese, però sempre più spesso colte. Non era finita, la battaglia: siamo noi che abbiamo abbandonato il campo. Che non abbiamo saputo adattarci al cambiamento di scala su cui noi stessi mettevamo in guardia gli altri. Che siamo scappati inorriditi quando le masse che sognavamo hanno cominciato a invadere sul serio gli spazi residenziali della rete. Come se avessero dovuto riconoscerci qualche rendita di potere, baciare le mani ai fondatori, chiedere permesso.

Eravamo di nuovo niente e piuttosto che rimboccarci le maniche da capo e provare a indirizzare quel movimento caotico e improvvisamente gigantesco, abbiamo preferito ignorare o peggio deridere i nuovi arrivati. Comunque mollare. Quando il gioco si è fatto vero, quando c’era da tenere la posizione (culturale, molto prima che politica o tecnologica) ce la siamo dati a gambe. Quando il diavolo ha bussato, gli abbiamo aperto e gli abbiamo detto beh, vedi tu se riesci a cavare qualcosa di buono da questo casino. Auguri.

Certo s’era fatta una certa età e dovevamo cominciare a pensare a mantenere noi stessi e le nostre nuove famiglie. L’ebbrezza del progresso nel suo avanzare e la gloria effimera condita di pacche sulle spalle e free drink al barcamp non potevano bastare più, serviva cominciare a remunerare seriamente le nostre competenze, quali che fossero. E su questo piano non abbiamo mai saputo proporre un modello alternativo convincente, c’è poco da fare.

 Chi è rimasto spesso spesso ha accusato le ingiurie degli anni, perché le espressioni di sé di uno sconfitto che abita gli spazi digitali mentre attraversa le crisi della mezza età forse sono ancor più impietose delle rughe sul volto.

Inoltre papà non ha certo giocato pulito con noi. Ricordo sempre quel tale, che considero paradigma della classe dirigente di fine millennio, vantarsi di aver conquistato la propria posizione ammazzando – simbolicamente, s’intende – i suoi padri. E di guardarsi bene dal farsi da parte, finché qualche giovane abbastanza capace e temerario non fosse riuscito nell’impresa di ammazzare lui, sempre simbolicamente. Settantenni e ottantenni ancora sulla cresta dell’onda, abbarbicati con ogni mezzo alla propria posizione di influenza, sostenuti da una rete pavida di convenienze e di interesse, pronti a stroncare sul nascere e a delegittimare ogni idea che possa mettere a repentaglio la conservazione del ruolo. Ho pensato a lungo a quelle parole. È una visione della comunità che sta alla mia come l’acido muriatico sta all’aceto balsamico, ma contiene almeno una verità.

Non siamo stati abbastanza bravi. Avevamo ragione, avevamo gioia, avevamo idee, avevamo spirito civico e senso del nostro tempo, ma non bastava, non basta mai: dovevamo anche dimostrarlo e renderlo talmente evidente e sostenibile da imporlo e travolgere tutti i giochetti più o meno puliti con cui i nostri padri culturali, economici, professionali e politici ci hanno deliberatamente sabotato, rallentato, depistato, sminuendo noi e la portata della visione che offrivamo. Non c’è nulla di biasimevole o ignobile nella sconfitta. Al contrario, la gran parte degli eroi nel mio pantheon personale sono straordinari sconfitti. Ma la sconfitta va riconosciuta e metabolizzata. Noi in fondo non l’abbiamo fatto, ancora. Altrove hanno saputo inseguire compromessi realistici che, un passo alla volta, avvicinassero la società alle opportunità del presente. Altrove sono diventati adulti. Qui in fondo siamo rimasti spesso ragazzini rancorosi, illusi o disillusi a seconda del percorso individuale che ne è seguito. 

Dunque possiamo concludere che non ne è valsa la pena? Io non credo. A pensarci bene è una valutazione che manca di rispetto alla nostra storia, alla sincerità delle nostre intenzioni, alle nostre esplorazioni coraggiose in un mondo ignoto e creativo. Ne è valsa eccome la pena. Ha forgiato la maggior parte di noi, ha forgiato una generazione, ha forgiato un’ideologia, molto più umanistica che tecnologica, che certo ora andrebbe evoluta e messa a punto, ma che avrebbe potuto contribuire a correggere le esasperazioni dell’unica idea occidentale di società ancora in circolazione, con l’eccezione forse dei movimenti neo-ambientalisti, ovvero la società dei processi di massa e del consumismo. Per di più nel suo momento più pericoloso: il declino. Non ne abbiamo giovato? Siamo rimasti precari irrisolti senza certezza del futuro? Può essere, ma è il destino che a un certo punto ci siamo scelti, e io anche nei giorni di maggior sconforto non riesco proprio a rinnegarlo.

È importante che cominciamo a dirci queste cose sia per fare i conti col nostro passato sia perché un nuovo salto di paradigma, ancor più gigantesco, ci sta investendo. L’intelligenza artificiale promette di fare al sistema operativo della società quello che già gli ha fatto internet, solo in un ordine di magnitudine superiore. Auspicabilmente porterà con sé anche una nuova generazione di pionieri ed entusiasti sperimentatori, che mi aspetto stavolta possa trovare alleati nella nostra. Ma se neghiamo perfino di essere stati quello che siamo stati, se rinneghiamo le nostre origini, se non viviamo l’orgoglio del testimone da passare avanti a qualcuno che magari avrà più chance di noi di riuscire nell’impresa di risolvere i grandi problemi delle nostre comunità, finiremo per diventare anche noi padri rancorosi e ostili. Senza nemmeno le rendite di potere a giustificazione.



Marzo 11 2024

g.g.

Del resto eri sempre quel bel mucchietto di passi più avanti, no Giuseppe? T’amminchiavi su un’idea e non la mollavi per giorni, mesi, anni. Il weblog, il Filter, la società digitale, Second Life, l’ebook, l’intelligenza artificiale. Infine la notte buia e tempestosa, la prima che non sei riuscito a condividere, la prima che non hai saputo smontare e rimontare come volevi tu, per poi magari insegnarle con una punta di paternalismo come avrebbe dovuto essere.

Che cosa avrebbe detto stasera Machado, g.g.? Ci sarà pure una citazione di Borges che mi possa prestare le parole, improvvisamente codarde, per descrivere che cosa sei stato, tu che ne avevi una pronta per ogni occasione. Pessoa, il baule pieno di gente: e tu che mettevi l’accento su gente, per dissimulare quanto in realtà a te affascinasse l’idea di poter costruire un baule enormemente più grande di quanto l’uomo avesse mai sognato immaginare. Il prodigio dei tempi che ci è capitato di vivere.

La realtà si è fatta plastilina davanti ai nostri occhi e io ricorderò finché campo le tue mani che impastano idee, software, relazioni, modelli, letteratura, fantascienza, persone, progetti. “Il più diverso” tra i guru, nota bene Enrico. Quello che coi suoi modi aristocratici e compiaciuti – capaci di dare il sangue alla testa a quanti coll’internet dovevano farne tanti, maledetti e subito – riusciva a seminare rivoluzioni nelle persone più imprevedibili.

Lo ha detto così bene Alessandro: “mi ha espanso”. Ti piaceva piacere, ma ti piaceva di più veder “crescere, raccontarsi e capirsi” (per dirla con Giovanni, io direi addirittura “concepirsi”) la comunità intorno a te. Tu che avresti potuto avere fama e successo ovunque, ma hai sempre preferito rimanere nerd nella tua piccola provincia fuori rotta (e il valore di questa scelta lo coglie bene oggi Giovanni).

Un artista dell’inception: quante volte ho pensato di aver partorito un’intuizione luminosa, per poi ritrovarla a distanza di tempo nei tuoi scritti o discorsi antecedenti. “Può essere che io l’abbia detto”, sogghignavi quando autodenunciavo il plagio inconsapevole, “ma tu l’hai consegnato al mondo”. Nei tuoi occhi ho letto competizione, polemica, duello, mai possesso o gelosia. Semmai egocentrico, ma non egoista. Al contrario, una delle persone più sinceramente generose e aperte al prossimo con cui mi sia capitato il privilegio di condividere vita e lavoro.

Cìn, amico mio. Quanti rimpianti per questa notte che tutto l’amore di noi qui oggi affranti non è riuscito almeno a rischiarare un po’. Avrà senz’altro un senso, ma noi come al solito lo capiremo un po’ dopo.

§

L’originale sta su Facebook.

Avevo scritto di lui anche nel novembre scorso, nel giorno del suo compleanno.

Dicembre 21 2022

Forse è ancora più chiaro, oggi che i luoghi di aggregazione, sollecitazione e contaminazione per i giovani non esistono quasi più, quanto peculiare sia stata la congiuntura in cui siamo cresciuti noi figli degli anni ’70 e ’80, forse ancora degli anni ’90, qui nel capoluogo dell’operoso Nord Est.

Non era già più il tempo dei rigidi percorsi confessionali o politici che avevano incanalato secondo metodi collaudati la formazione della gioventù del Dopoguerra. Il loro posto veniva invece occupato da palestre sperimentali e contenitori accoglienti per i talenti dei giovani, talora spontanei e autogenerativi (penso al San Giorgio di don Bozzet) altre volte strutturati dentro a un più ampio ripensamento in senso inclusivo della cultura e della società (come la “Casa dello studente” di don Padovese).

Luoghi di rivoluzione pacifica, civica e quotidiana, che forse non a caso sono stati ispirati spesso da preti illuminati sulla via del Concilio e che ciononostante non erano riconducibili semplicemente a dinamiche di parrocchia e oratorio. Soffiavano i primi aliti delle tempeste che si sarebbero effettivamente abbattute sul nuovo secolo e lavorare sugli anticorpi delle nuove generazioni pareva evidentemente a qualcuno un esperimento necessario.

Alla Casa dello studente, fin da ragazzino, ho visto i film che mi hanno fatto innamorare del cinema, ho salutato con entusiasmo le tappe di avvicinamento all’Europa unita, ho letto giornali e riviste, ho pranzato, ho studiato insieme ai miei amici, ho visto mostre, ho seguito conferenze sui temi cardine del nostro tempo, ho visto moltiplicarsi intorno a me anno dopo anno corsi di lingua, di fotografia, di giornalismo, di videomaking, di teatro, di ogni possibile forma di competenza e creatività contemporanea fino a quelli più recenti di robotica e di progettazione 3D. Un fermento che ha inciso sulla pelle della mia generazione sentimenti di libertà, cittadinanza e apertura al mondo delle idee e delle possibilità.

Per tutto questo oggi saluto con riconoscenza don Luciano Padovese. La sua scomparsa chiude simbolicamente un’epoca, sebbene il fantastico staff del Centro Culturale Casa A. Zanussi – a cui va il mio abbraccio – prosegua eroicamente nell’opera.

Don Luciano e gli altri hanno saputo nutrire generazioni con gli avanzi della società dell’abbondanza e fare la differenza nella storia di molti di noi. Oggi che gli avanzi sembrano essersi ridotti a briciole, restano tuttavia le intuizioni di fondo della loro opera – rete, relazioni, cultura, mondo, complessità, generazioni, competenze, sperimentazione, quotidianità – e resta più che mai l’urgenza di nutrire le nuove generazioni, generazioni solo apparentemente sazie, giovani che fanno sempre più fatica a maturare la consapevolezza dei loro talenti e la visione d’insieme in cui inserirli, sperando di fare in tempo per le prossime tempeste che inevitabilmente ci sferzeranno. Sarebbe un modo degno di onorarne la memoria.

Settembre 30 2022

È stato un privilegio della vita lavorare al Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. Raramente un luogo di lavoro ha saputo mescolare in modo così intenso la sfera professionale e quello degli ideali di comunità che inseguo nel mondo.

In tre anni ho ricevuto molto più di quanto io possa aver dato, dalle persone e nelle situazioni più imprevedibili. Questo è un luogo di dettagli, di sfumature, di interstizi, di epifanie. Ti si rivelano mentre sei in altro affaccendato e ti si appiccicano addosso, a volte svoltandoti la giornata, a volte imprimendo un segno nel tuo percorso di vita.

Qui resta un legame, non solo professionale, che spero di coltivare ancora. Da cittadino, molto prima che da professionista, provo gratitudine per le persone che hanno reso il CRO un luogo di cui andare fieri, e soprattutto per quanti oggi si adoperano per custodirne lo spirito.

Arrivederci. E grazie.

Marzo 25 2022

Ehi tu, dodicenne che canti e balli la tua canzone inventata nella terra di mezzo tra infanzia e adolescenza. Che ora brontoli sul divano perché i compleanni poi finiscono e ogni minuto deve essere memorabile più del precedente.

Tu che nell’ultimo anno hai imparato a ridere di gusto di una risata aperta, sincera e autoironica, che riempie le stanze e fa innamorare. Che ogni giorno te ne freghi per qualche minuto in più di quello che gli altri pensano di te e inizi a decidere da sola le cose che ti riguardano, dosando con sapienza cinismo e giudizio.

Tu che mangeresti (e mangi) gelato al cioccolato tutti giorni, a qualunque ora del giorno, e la sera provi a convincerci che non conta se l’hai già mangiato quel giorno, perché a ben vedere non è più giorno ma sera. Tu che passi dalla disperazione furibonda alla gioia travolgente in pochi minuti, cambiando registro con la facilità con cui cambi i mondi e le skin sulla playstation.

Tu che spacchi a scuola, spacchi nello sport, spacchi nella musica, spacchi nei videogiochi, ma fai tutto col freno a mano tirato (tranne i videogiochi, s’intende), dando l’impressione di risparmiare energie, andarci piano con le vocazioni e mantenere tempi e spazi per scorprirsi e farsi scoprire poco a poco. E che in compenso hai la straordinaria fortuna di incrociare il maestro giusto nel tempo giusto, quello in grado di accoglierti e rispettarti per come sei, intuendo quello che sarai o che potresti essere.

Tu che quest’anno hai ricostruito il tuo nido in una camera tutta nuova, per conto tuo. Che tuo fratello lo cerchi ancora, ma con una complicità più matura. Che hai cambiato quartiere, scuola e compagni non senza timori, per scoprire invece una naturalezza nuova, che ti ha rinforzato e reso più libera. Che non ti ha fatto perdere i vecchi amici e te ne ha fatti incontrare di nuovi. E che ti fa leggere le storie che incontri, i luoghi che attraversi e gli inevitabili pericoli in cui inciampi con una testa sulle spalle che mi rassicura molto per gli anni a venire.

Tu, che sei nata con le orecchie a tortellino nel salotto di casa di una casa che adesso casa non è più, e uscendo da lì ci è sembrato di perdere per sempre un po’ della magia di quella sera. E invece eri tu quella magia, e l’abbiamo ritrovata intatta, grati, mentre ti guardiamo avviarti in cerca della tua strada nel mondo.

Ehi tu, proprio tu, tanti auguri dal tuo papà.

Gennaio 10 2022

Gianni l’avrebbe fatta molto breve. Gli piaceva molto dilungarsi in aneddoti e storie sportive, amava veder riconosciute le sue imprese e quelle della sua società, ma tendeva a rifuggire le cerimonie ufficiali, i discorsi formali, il doversi parlare addosso in giacca e cravatta.

E del resto che cosa possiamo dirci oggi che non ci siamo già detti in quasi sessant’anni di G.S. Hockey Pordenone, Gianni? Abbiamo passato la vita assieme. Come una famiglia, per sessant’anni abbiamo fatto progetti, abbiamo gioito (e quanto abbiamo gioito!), abbiamo allevato ragazzini, abbiamo litigato (spesso), abbiamo tenuto duro. E poi abbiamo ricominciato, più e più volte da capo. Conto almeno dieci generazioni di ragazze e ragazzi che hanno messo i pattini ai piedi e afferrato una stecca, da quando ti sei messo in testa questa cosa dell’hockey, Gianni. Dieci generazioni, alcune delle quali mettono in fila nonno, papà e nipote.

E quanti nipotini oggi in pista, Gianni. A te importava soprattutto vederli grandi e possibilmente forti, lo svezzamento hockeistico lo lasciavi volentieri ad altri. Alla festa di Natale – tu non avevi potuto essere con noi – avresti dovuto vederli, ho fatto giusto in tempo a raccontartelo l’ultima volta che ci siamo visti. Un palazzetto che brulicava di ragazze e ragazzi di tutte le età, felici, divertiti, innamorati dello sport di cui tu ci hai fatto innamorare tutti quanti. Quella pista brulicante, il fermento che viviamo ogni settimana, per cinque giorni alla settimana, ecco, quello credo sia il più bel monumento che ti potremo mai dedicare. L’hockey che continua, lo sport che sopravvive al suo patriarca, il sogno di tornare grandi che si rinnova di anno in anno, di gruppo dirigente in gruppo dirigente.

La tua visione, il tuo sogno sono sempre stati più grandi e hanno alimentato le visioni e i sogni di centinaia e centinaia di persone. Altro che squadra di provincia: tu eri un dirigente di rango internazionale, e non è un caso che per almeno un paio di decenni tu sia stato davvero uno dei personaggi più potenti nell’hockey pista italiano, e non solo italiano. Lo stanno riconoscendo in tanti in queste ore. Eri uno di quegli uomini che, nel dubbio, preme l’acceleratore a tavoletta, piuttosto che tirare il freno. E nella scorribanda gioiosa, entusiasta e visionaria che è stata la tua vita hai trascinato un po’ tutti noi.

C’è solo una parola che manca nella vicenda del GS Hockey, ed è grazie. “Grazie Gianni” l’avremo detto un milione di volte, figurati. Il grazie distratto, frettoloso, circostanziato, di tutti i giorni. Pendeva invece la celebrazione compiuta della tua vicenda sportiva, il riconoscimento collettivo della longevità delle tue idee, l’apprezzamento pubblico per la generosità che hai dimostrato con le ultime tue decisioni da presidente.

Per questo, anche con la scusa dell’ottantesimo compleanno, ti stavamo preparando una sorpresa per l’inizio del campionato. Al contrario, la sorpresa l’hai fatta tu a noi, amara. E oggi, frastornati dalla commozione, non saremo probabilmente capaci di rendere giustizia alla tua carica umana, al tuo continuo incitamento a fare meglio, alla tua determinazione a superare qualunque ostacolo.

Continuare il tuo lavoro, ricordandoci ogni giorno di quell’uomo genuino dai sogni grandi che ci ha indicato la strada, sarà il nostro modo di dirti grazie.

Ciao a te, Giovanni Silvani. Ciao a te.

Luglio 13 2021

Sono convinto che una delle chiavi di lettura di quest’epoca sia la responsabilità: intorno alle responsabilità che decidiamo di prendere, o più spesso di scansare, prende forma la comunità a cui apparteniamo.

Con quest’animo, sebbene non proprio a cuor leggero, lunedì sera ho accettato di diventare presidente del G.S. Hockey Pordenone, storica associazione sportiva che mi ha conosciuto ragazzino negli anni ’80 (nella rarissima foto d’antan, il primo a sinistra) e mi ha ritrovato qualche anno fa genitore e poi dirigente nel settore giovanile.

Per spirito di servizio, e con lo spirito di servizio che ho conosciuto negli occhi di Antonio Santangelo, di Ermenegildo Marrone, di Antonio Aloisi e di tante altre brave persone di buona volontà che per nostra fortuna ancora attraversano il PalaMarrone, mi metto a disposizione di un progetto non soltanto sportivo per i bambini e i ragazzi di Pordenone che si avvicinano all’hockey su pista, evidentemente lo sport più appassionante di tutti i tempi.

Al presidente Giovanni Silvani, che ieri abbiamo all’unanimità eletto presidente onorario, va la gratitudine mia e di tutto il movimento hockeistico pordenonese per aver contribuito a piantare un seme cinquantasette anni fa e aver accudito quel germoglio attraverso trionfi e tempeste fino a farne uno degli alberi più alti e prestigiosi nel bosco sportivo della nostra città.
Io e l’affiatato gruppo di dirigenti che con me oggi riceve il testimone di una gestione storica ne portiamo la consapevolezza e l’orgoglio.

§

Il comunicato dell’ASD GS Hockey Pordenone

Giugno 30 2021

Se non ti chiedi come funziona quello che funziona, chi c’è dietro a tutta la cura che serve, comprendi solo una parte della tua città.

Dietro a Pordenone, dietro alle persone che ci hanno messo di volta in volta la faccia, com’è giusto che sia, dietro all’esplosione di eventi culturali e alla capacità della città di fare cose e attirare attenzione, negli ultimi vent’anni c’è stato soprattutto un manipolo di persone giovani, preparate, intraprendenti, la testa veloce quanto le mani, dotate di una passione e di un senso del servizio civico fuori dal comune.

O per meglio dire dentro al comune, perché in effetti l’epicentro di questa congiuntura straordinaria che ha contribuito a scuotere una città di fabbriche e caserme è stato proprio nella pancia del municipio. E l’epicentro dell’epicentro, nella mia immaginazione, era la scrivania di Bertilla Fantin, una scrivania il più delle volte vuota perché la città intera era per lei postazione di lavoro.

Allora forse si può intuire che cosa ha perso oggi Pordenone. Un ingranaggio di quelli che riparare il motore poi è un bel casino, che mica esistono le fabbriche di ingranaggi così. Un equilibrio meraviglioso di coscienza pubblica, efficienza privata, pratica, motivazione, capacità di trovare una soluzione per ogni problema.

E questo ancora è nulla di fronte alla simpatia, che scaturiva fin dal nome, alla carica umana, alla leggerezza, alla discrezione, alla benevolenza per il prossimo, all’amore per la città. Una persona molto speciale, che ti conquistava con naturalezza in un attimo e che poi non dimenticavi più, come confermerà probabilmente in queste ore chiunque l’abbia conosciuta.

Bertilla era un ingranaggio dell’anima di Pordenone. Non l’anima della Pordenon de ‘na volta, quella che fa tanta nostalgia. Ma l’anima della Pordenone di oggi, quella che stiamo ancora costruendo, a cui Bertilla ha dato tanto e ancora tanto avrebbe dovuto dare. Che fa rabbia, anche se un giorno rimarrà solo la riconoscenza.

Giugno 10 2021

Allora ci salutiamo qui, piccola grande scuola Gozzi.

La mia famiglia e io siamo entrati una mattina di dicembre del 2011 e ne siamo diventati parte prima ancora di averlo deciso. Ricordo l’accoglienza, il calore, la percezione di uno stato di grazia che fondeva la passione e l’impegno di tutti in qualcosa di più grande e coinvolgente.

Per i nostri figli è stata un’esperienza felice. Due cicli molto diversi, ugualmente fondamentali. Tre cose almeno hanno avuto in comune: la cura, il senso di possibilità e l’idea che i muri non fossero un confine.

Grazie per la povertà, che è la cifra della scuola pubblica in quest’epoca miope: ci ha spinto a non dare mai nulla per scontato, a dare prima che a ricevere, a tirare fuori il massimo da ciascuno e il meglio da ogni cosa.

E grazie per la diversità: diversi per storie, provenienze, ambizioni, abilità, non è stato sempre scontato arrivare in fondo, salvo accorgerci a destinazione che quella fatica era gran parte del senso.

Da quelle porte è entrata tanta vita: dieci anni di vita della nostra famiglia, del nostro quartiere, della nostra comunità. Abbiamo vissuto gioie grandi, fieri orgogli, lutti da cui risorgere. Abbiamo attraversato la paralisi sociale di quest’ultimo anno e mezzo. Ne usciamo oggi un po’ cambiati, forse più maturi – noi adulti soprattutto.

Non è nemmeno l’ombra della conclusione che immaginavamo, questa di oggi, senza il calore dell’abbraccio né un testimone da passare. Eppure anche in questo ci insegni: che non ci si ferma, che non viene meno il momento. Neanche se è difficile. Neanche se manca la gratificazione.

Che tu possa ritrovare quella grazia e continuare a essere per tante altre famiglie la fonderia di comunità che sei stata per noi. Grazie.

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