Il blog di Sergio Maistrello dal 2003
Ehi tu, figlia quattordicenne
- LOCATED IN Vivo
Ehi tu. Guarda che ti ho visto, piccoletta. Che ti aggiri per casa rubando ogni residuo di infanzia con la determinazione bonaria di chi pensa fosse anche ora, e ricevi lettere dal distretto sanitario per ricordarti che mica hai più diritto alla pediatra. Ma come ti permetti, dico io?
Lo riconosci anche tu il confine intorno a cui saltelli, ora di qua ora di là, un po’ piccola e un po’ grande, un po’ ingenua e un po’ scaltra, un po’ incerta e un po’ indipendente, un po’ spensierata e un po’ persa nei primi pensieri lunghi? Ti capita ancora di irrigidirti per la frustrazione, come quand’eri bambina, ma sempre più spesso te ne accorgi da sola e finisce che ti scappa da ridere anche al colmo della disperazione. E io sorrido con te, perché penso che forse sarà proprio l’ironia, che pure non ami perché la riconosci arma, a salvarti dai giorni bui.
Conosciamo ogni tuo muscolo, osso, legamento, perché la lotteria quotidiana dei crampi, dei risentimenti e delle contusioni è un rito che precede perfino il saluto, essendosi ormai evidentemente e irrimediabilmente compromessa la perfezione del giorno. E mentre te ne facciamo parodia, mi chiedo se in fondo questa esasperata propensione alla rilevazione e all’analisi magari un giorno non ti sarà alleata nel leggere le pieghe del mondo che attraverserai.
Intanto badi ai tuoi interessi con la sagacia del venditore di almanacchi, e l’almanacco alla fine a noi lo rifili quasi sempre. Non concepisci l’ingiustizia, a meno che non avvantaggi un pochettino anche te. E hai capito che per ricevere si deve prima dare, così sei sempre molto attenta ai desideri degli altri, coltivando la speranza che poi anche gli altri facciano altrettanto. E siccome l’esercizio del dono rende migliori, stai diventando una persona attenta e generosa, capace di celebrare i legami con spontaneità e creatività. Per cui è sempre più bello provare orgoglio.
Chiaramente ti piace ancora molto il gelato al cioccolato, intorno al quale ruotano una fitta rete di complicità familiari, itinerari indotti, uscite strategiche, amicizie solidali, mentre hai sempre più curiosità per il modo in cui si preparano le cose che mangi, a cui ora mancherebbe soltanto il coraggio di scoprire gusti nuovi (anche per dare un po’ di tregua alla noia – o all’ansia – di chi ti prepara i pasti).
Ehi tu, ladruncola di infanzia che insegui i pezzettini della tua identità in giro per luoghi e persone della tua quotidianità e poi ti rifugi nella tua camera per provare a metterli insieme come un puzzle rompicapo (o, più probabilmente, per vedere una serie da adolescenti sul telefonino): buon compleanno dal tuo papà.
Forse è ancora più chiaro, oggi che i luoghi di aggregazione, sollecitazione e contaminazione per i giovani non esistono quasi più, quanto peculiare sia stata la congiuntura in cui siamo cresciuti noi figli degli anni ’70 e ’80, forse ancora degli anni ’90, qui nel capoluogo dell’operoso Nord Est.
Non era già più il tempo dei rigidi percorsi confessionali o politici che avevano incanalato secondo metodi collaudati la formazione della gioventù del Dopoguerra. Il loro posto veniva invece occupato da palestre sperimentali e contenitori accoglienti per i talenti dei giovani, talora spontanei e autogenerativi (penso al San Giorgio di don Bozzet) altre volte strutturati dentro a un più ampio ripensamento in senso inclusivo della cultura e della società (come la “Casa dello studente” di don Padovese).
Luoghi di rivoluzione pacifica, civica e quotidiana, che forse non a caso sono stati ispirati spesso da preti illuminati sulla via del Concilio e che ciononostante non erano riconducibili semplicemente a dinamiche di parrocchia e oratorio. Soffiavano i primi aliti delle tempeste che si sarebbero effettivamente abbattute sul nuovo secolo e lavorare sugli anticorpi delle nuove generazioni pareva evidentemente a qualcuno un esperimento necessario.
Alla Casa dello studente, fin da ragazzino, ho visto i film che mi hanno fatto innamorare del cinema, ho salutato con entusiasmo le tappe di avvicinamento all’Europa unita, ho letto giornali e riviste, ho pranzato, ho studiato insieme ai miei amici, ho visto mostre, ho seguito conferenze sui temi cardine del nostro tempo, ho visto moltiplicarsi intorno a me anno dopo anno corsi di lingua, di fotografia, di giornalismo, di videomaking, di teatro, di ogni possibile forma di competenza e creatività contemporanea fino a quelli più recenti di robotica e di progettazione 3D. Un fermento che ha inciso sulla pelle della mia generazione sentimenti di libertà, cittadinanza e apertura al mondo delle idee e delle possibilità.
Per tutto questo oggi saluto con riconoscenza don Luciano Padovese. La sua scomparsa chiude simbolicamente un’epoca, sebbene il fantastico staff del Centro Culturale Casa A. Zanussi – a cui va il mio abbraccio – prosegua eroicamente nell’opera.
Don Luciano e gli altri hanno saputo nutrire generazioni con gli avanzi della società dell’abbondanza e fare la differenza nella storia di molti di noi. Oggi che gli avanzi sembrano essersi ridotti a briciole, restano tuttavia le intuizioni di fondo della loro opera – rete, relazioni, cultura, mondo, complessità, generazioni, competenze, sperimentazione, quotidianità – e resta più che mai l’urgenza di nutrire le nuove generazioni, generazioni solo apparentemente sazie, giovani che fanno sempre più fatica a maturare la consapevolezza dei loro talenti e la visione d’insieme in cui inserirli, sperando di fare in tempo per le prossime tempeste che inevitabilmente ci sferzeranno. Sarebbe un modo degno di onorarne la memoria.
Arrivederci al CRO
- LOCATED IN Vivo
È stato un privilegio della vita lavorare al Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. Raramente un luogo di lavoro ha saputo mescolare in modo così intenso la sfera professionale e quello degli ideali di comunità che inseguo nel mondo.
In tre anni ho ricevuto molto più di quanto io possa aver dato, dalle persone e nelle situazioni più imprevedibili. Questo è un luogo di dettagli, di sfumature, di interstizi, di epifanie. Ti si rivelano mentre sei in altro affaccendato e ti si appiccicano addosso, a volte svoltandoti la giornata, a volte imprimendo un segno nel tuo percorso di vita.
Qui resta un legame, non solo professionale, che spero di coltivare ancora. Da cittadino, molto prima che da professionista, provo gratitudine per le persone che hanno reso il CRO un luogo di cui andare fieri, e soprattutto per quanti oggi si adoperano per custodirne lo spirito.
Arrivederci. E grazie.
Ehi tu, figlia dodicenne
- LOCATED IN Vivo
Ehi tu, dodicenne che canti e balli la tua canzone inventata nella terra di mezzo tra infanzia e adolescenza. Che ora brontoli sul divano perché i compleanni poi finiscono e ogni minuto deve essere memorabile più del precedente.
Tu che nell’ultimo anno hai imparato a ridere di gusto di una risata aperta, sincera e autoironica, che riempie le stanze e fa innamorare. Che ogni giorno te ne freghi per qualche minuto in più di quello che gli altri pensano di te e inizi a decidere da sola le cose che ti riguardano, dosando con sapienza cinismo e giudizio.
Tu che mangeresti (e mangi) gelato al cioccolato tutti giorni, a qualunque ora del giorno, e la sera provi a convincerci che non conta se l’hai già mangiato quel giorno, perché a ben vedere non è più giorno ma sera. Tu che passi dalla disperazione furibonda alla gioia travolgente in pochi minuti, cambiando registro con la facilità con cui cambi i mondi e le skin sulla playstation.
Tu che spacchi a scuola, spacchi nello sport, spacchi nella musica, spacchi nei videogiochi, ma fai tutto col freno a mano tirato (tranne i videogiochi, s’intende), dando l’impressione di risparmiare energie, andarci piano con le vocazioni e mantenere tempi e spazi per scorprirsi e farsi scoprire poco a poco. E che in compenso hai la straordinaria fortuna di incrociare il maestro giusto nel tempo giusto, quello in grado di accoglierti e rispettarti per come sei, intuendo quello che sarai o che potresti essere.
Tu che quest’anno hai ricostruito il tuo nido in una camera tutta nuova, per conto tuo. Che tuo fratello lo cerchi ancora, ma con una complicità più matura. Che hai cambiato quartiere, scuola e compagni non senza timori, per scoprire invece una naturalezza nuova, che ti ha rinforzato e reso più libera. Che non ti ha fatto perdere i vecchi amici e te ne ha fatti incontrare di nuovi. E che ti fa leggere le storie che incontri, i luoghi che attraversi e gli inevitabili pericoli in cui inciampi con una testa sulle spalle che mi rassicura molto per gli anni a venire.
Tu, che sei nata con le orecchie a tortellino nel salotto di casa di una casa che adesso casa non è più, e uscendo da lì ci è sembrato di perdere per sempre un po’ della magia di quella sera. E invece eri tu quella magia, e l’abbiamo ritrovata intatta, grati, mentre ti guardiamo avviarti in cerca della tua strada nel mondo.
Ehi tu, proprio tu, tanti auguri dal tuo papà.
Ciao a te, Giovanni Silvani
- LOCATED IN Ricordo
Gianni l’avrebbe fatta molto breve. Gli piaceva molto dilungarsi in aneddoti e storie sportive, amava veder riconosciute le sue imprese e quelle della sua società, ma tendeva a rifuggire le cerimonie ufficiali, i discorsi formali, il doversi parlare addosso in giacca e cravatta.
E del resto che cosa possiamo dirci oggi che non ci siamo già detti in quasi sessant’anni di G.S. Hockey Pordenone, Gianni? Abbiamo passato la vita assieme. Come una famiglia, per sessant’anni abbiamo fatto progetti, abbiamo gioito (e quanto abbiamo gioito!), abbiamo allevato ragazzini, abbiamo litigato (spesso), abbiamo tenuto duro. E poi abbiamo ricominciato, più e più volte da capo. Conto almeno dieci generazioni di ragazze e ragazzi che hanno messo i pattini ai piedi e afferrato una stecca, da quando ti sei messo in testa questa cosa dell’hockey, Gianni. Dieci generazioni, alcune delle quali mettono in fila nonno, papà e nipote.
E quanti nipotini oggi in pista, Gianni. A te importava soprattutto vederli grandi e possibilmente forti, lo svezzamento hockeistico lo lasciavi volentieri ad altri. Alla festa di Natale – tu non avevi potuto essere con noi – avresti dovuto vederli, ho fatto giusto in tempo a raccontartelo l’ultima volta che ci siamo visti. Un palazzetto che brulicava di ragazze e ragazzi di tutte le età, felici, divertiti, innamorati dello sport di cui tu ci hai fatto innamorare tutti quanti. Quella pista brulicante, il fermento che viviamo ogni settimana, per cinque giorni alla settimana, ecco, quello credo sia il più bel monumento che ti potremo mai dedicare. L’hockey che continua, lo sport che sopravvive al suo patriarca, il sogno di tornare grandi che si rinnova di anno in anno, di gruppo dirigente in gruppo dirigente.
La tua visione, il tuo sogno sono sempre stati più grandi e hanno alimentato le visioni e i sogni di centinaia e centinaia di persone. Altro che squadra di provincia: tu eri un dirigente di rango internazionale, e non è un caso che per almeno un paio di decenni tu sia stato davvero uno dei personaggi più potenti nell’hockey pista italiano, e non solo italiano. Lo stanno riconoscendo in tanti in queste ore. Eri uno di quegli uomini che, nel dubbio, preme l’acceleratore a tavoletta, piuttosto che tirare il freno. E nella scorribanda gioiosa, entusiasta e visionaria che è stata la tua vita hai trascinato un po’ tutti noi.
C’è solo una parola che manca nella vicenda del GS Hockey, ed è grazie. “Grazie Gianni” l’avremo detto un milione di volte, figurati. Il grazie distratto, frettoloso, circostanziato, di tutti i giorni. Pendeva invece la celebrazione compiuta della tua vicenda sportiva, il riconoscimento collettivo della longevità delle tue idee, l’apprezzamento pubblico per la generosità che hai dimostrato con le ultime tue decisioni da presidente.
Per questo, anche con la scusa dell’ottantesimo compleanno, ti stavamo preparando una sorpresa per l’inizio del campionato. Al contrario, la sorpresa l’hai fatta tu a noi, amara. E oggi, frastornati dalla commozione, non saremo probabilmente capaci di rendere giustizia alla tua carica umana, al tuo continuo incitamento a fare meglio, alla tua determinazione a superare qualunque ostacolo.
Continuare il tuo lavoro, ricordandoci ogni giorno di quell’uomo genuino dai sogni grandi che ci ha indicato la strada, sarà il nostro modo di dirti grazie.
Ciao a te, Giovanni Silvani. Ciao a te.
- Il comunicato del G.S. Hockey Pordenone
Il presidente dei gialloblu
- LOCATED IN Vivo
Sono convinto che una delle chiavi di lettura di quest’epoca sia la responsabilità: intorno alle responsabilità che decidiamo di prendere, o più spesso di scansare, prende forma la comunità a cui apparteniamo.
Con quest’animo, sebbene non proprio a cuor leggero, lunedì sera ho accettato di diventare presidente del G.S. Hockey Pordenone, storica associazione sportiva che mi ha conosciuto ragazzino negli anni ’80 (nella rarissima foto d’antan, il primo a sinistra) e mi ha ritrovato qualche anno fa genitore e poi dirigente nel settore giovanile.
Per spirito di servizio, e con lo spirito di servizio che ho conosciuto negli occhi di Antonio Santangelo, di Ermenegildo Marrone, di Antonio Aloisi e di tante altre brave persone di buona volontà che per nostra fortuna ancora attraversano il PalaMarrone, mi metto a disposizione di un progetto non soltanto sportivo per i bambini e i ragazzi di Pordenone che si avvicinano all’hockey su pista, evidentemente lo sport più appassionante di tutti i tempi.
Al presidente Giovanni Silvani, che ieri abbiamo all’unanimità eletto presidente onorario, va la gratitudine mia e di tutto il movimento hockeistico pordenonese per aver contribuito a piantare un seme cinquantasette anni fa e aver accudito quel germoglio attraverso trionfi e tempeste fino a farne uno degli alberi più alti e prestigiosi nel bosco sportivo della nostra città.
Io e l’affiatato gruppo di dirigenti che con me oggi riceve il testimone di una gestione storica ne portiamo la consapevolezza e l’orgoglio.
§
Il comunicato dell’ASD GS Hockey Pordenone
La scrivania di Bertilla
- LOCATED IN Ricordo
Se non ti chiedi come funziona quello che funziona, chi c’è dietro a tutta la cura che serve, comprendi solo una parte della tua città.
Dietro a Pordenone, dietro alle persone che ci hanno messo di volta in volta la faccia, com’è giusto che sia, dietro all’esplosione di eventi culturali e alla capacità della città di fare cose e attirare attenzione, negli ultimi vent’anni c’è stato soprattutto un manipolo di persone giovani, preparate, intraprendenti, la testa veloce quanto le mani, dotate di una passione e di un senso del servizio civico fuori dal comune.
O per meglio dire dentro al comune, perché in effetti l’epicentro di questa congiuntura straordinaria che ha contribuito a scuotere una città di fabbriche e caserme è stato proprio nella pancia del municipio. E l’epicentro dell’epicentro, nella mia immaginazione, era la scrivania di Bertilla Fantin, una scrivania il più delle volte vuota perché la città intera era per lei postazione di lavoro.
Allora forse si può intuire che cosa ha perso oggi Pordenone. Un ingranaggio di quelli che riparare il motore poi è un bel casino, che mica esistono le fabbriche di ingranaggi così. Un equilibrio meraviglioso di coscienza pubblica, efficienza privata, pratica, motivazione, capacità di trovare una soluzione per ogni problema.
E questo ancora è nulla di fronte alla simpatia, che scaturiva fin dal nome, alla carica umana, alla leggerezza, alla discrezione, alla benevolenza per il prossimo, all’amore per la città. Una persona molto speciale, che ti conquistava con naturalezza in un attimo e che poi non dimenticavi più, come confermerà probabilmente in queste ore chiunque l’abbia conosciuta.
Bertilla era un ingranaggio dell’anima di Pordenone. Non l’anima della Pordenon de ‘na volta, quella che fa tanta nostalgia. Ma l’anima della Pordenone di oggi, quella che stiamo ancora costruendo, a cui Bertilla ha dato tanto e ancora tanto avrebbe dovuto dare. Che fa rabbia, anche se un giorno rimarrà solo la riconoscenza.
Arrivederci, scuola Gozzi
- LOCATED IN Vivo
Allora ci salutiamo qui, piccola grande scuola Gozzi.
La mia famiglia e io siamo entrati una mattina di dicembre del 2011 e ne siamo diventati parte prima ancora di averlo deciso. Ricordo l’accoglienza, il calore, la percezione di uno stato di grazia che fondeva la passione e l’impegno di tutti in qualcosa di più grande e coinvolgente.
Per i nostri figli è stata un’esperienza felice. Due cicli molto diversi, ugualmente fondamentali. Tre cose almeno hanno avuto in comune: la cura, il senso di possibilità e l’idea che i muri non fossero un confine.
Grazie per la povertà, che è la cifra della scuola pubblica in quest’epoca miope: ci ha spinto a non dare mai nulla per scontato, a dare prima che a ricevere, a tirare fuori il massimo da ciascuno e il meglio da ogni cosa.
E grazie per la diversità: diversi per storie, provenienze, ambizioni, abilità, non è stato sempre scontato arrivare in fondo, salvo accorgerci a destinazione che quella fatica era gran parte del senso.
Da quelle porte è entrata tanta vita: dieci anni di vita della nostra famiglia, del nostro quartiere, della nostra comunità. Abbiamo vissuto gioie grandi, fieri orgogli, lutti da cui risorgere. Abbiamo attraversato la paralisi sociale di quest’ultimo anno e mezzo. Ne usciamo oggi un po’ cambiati, forse più maturi – noi adulti soprattutto.
Non è nemmeno l’ombra della conclusione che immaginavamo, questa di oggi, senza il calore dell’abbraccio né un testimone da passare. Eppure anche in questo ci insegni: che non ci si ferma, che non viene meno il momento. Neanche se è difficile. Neanche se manca la gratificazione.
Che tu possa ritrovare quella grazia e continuare a essere per tante altre famiglie la fonderia di comunità che sei stata per noi. Grazie.
Partita Iva 01537680934 • Trasparenza • Privacy Policy • Licenza contenuti: Creative Commons BY-NC-SA • Per comunicazioni: sm@sergiomaistrello.it