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Category: Guardo

Ottobre 24 2005

Del nuovo film di Benigni, La tigre e la neve, mi ha colpito una cosa in particolare. Che durante la stessa scena, spesso, c’era chi rideva di gusto e chi si asciugava le lacrime. Segno di un film particolarmente ricco di livelli di lettura differenti, e che a me nel complesso è piaciuto. Mi ha sorpreso all’inizio (la scena iniziale è tripudio di citazioni e di sottointesi) ed è rimasto credibile – pur tenendosi con le unghie – anche sotto le bombe di Bagdad. Credibile, e poetico, nei termini della lezione un po’ folle sul senso e sul potere della poesia che il protagonista tiene alla sua classe nella prima parte, molto solare, del film.

Novembre 30 2004

Dunque ora so che Celine e Jesse non s’incontrarono affatto a Vienna sei mesi dopo essersi conosciuti su un treno diretto a Parigi da Budapest. Immaginavo che andare a vedere Prima del tramonto (Before Sunset) nove anni dopo Prima dell’alba (Before Sunrise) avrebbe rovinato in parte la poesia che il film di Linklater mi ha trasmesso ogni volta che l’ho rivisto (non poche). Meraviglioso: un film in cui i protagonisti non fanno altro che blaterare dal primo all’ultimo minuto, senza che succeda mai nulla per davvero. Ha ragione Pietro, probabilmente, quando dice che il primo film parla ai ventenni come oggi il secondo parla ai trentenni; sta di fatto che a me Prima dell’alba in qualche modo ha continuato a parlare.

Quello che penso di Prima del tramonto è condizionato per i primi 10 minuti dall’effetto “ah, ecco come andò poi a finire”, seguito da sguardo ebete e tentativo di riprendere faticosamente il filo della storia. Per i successivi 20 minuti mi sono lasciato distrarre dall’impressione di riconoscere riferimenti visivi a uso e consumo di chi conosce a memoria i primi 105 minuti: il risultato, nel mio caso, è stato fastidio più che complicità. Quando finalmente la pellicola entra nel vivo, i protagonisti riprendono a blaterare amabilmente da dove si erano interrotti. Dice Louga di Bamboo che i dialoghi sono a volte più banali a volte più interessanti, ma mai noiosi; e io sono d’accordo con lui. Questa volta, però, i protagonisti sembrano andare di fretta e manca un pizzico della magia che teneva viva la storia: è scomparsa l’illusione di una meta da scoprire passo dopo passo del primo film, e l’impressione è semmai di trovarsi davanti a un percorso tracciato a tavolino su una piantina di Parigi.

Nella seconda metà il film trova il suo perché e diventa più coinvolgente, ben interpretato da Ethan Hawke e Julie Delpy. Il finale, neanche a dirlo, resta sospeso. Nel complesso niente male, ma mi appunto di rividerlo a mente lucida tra qualche mese per giudicarlo in modo più obiettivo.

Dicembre 1 2003

Le foto del Che

Ernesto Che Guevara, autoritratto, 1959Sabato ho visto la mostra di Ernesto Guevara Lynch de la Serna, un fotografo poco conosciuto, più noto come rivoluzionario cubano: sono esposte un centinaio di immagini scattate negli anni ’50 in occasione dei viaggi del Che da studente di medicina in Asia e Sud America e quindi agli inizi dell’attività politica in Guatemala e Messico. La raccolta nasce sulla base di un lavoro di recupero e conservazione avviato al Centro de Estudios Che Guevara dell’Havana e da un paio d’anni sta girando tra Spagna, Cuba, Messico, Uruguay, Francia, Nicaragua e Germania. A Milano si ferma fino al 20 dicembre nello spazio Solferino 19 (di fronte al Corriere della Sera), con dettagli riassunti qui.

Mettete un appassionato di fotografia davanti a reperti storici in bianco e nero e a qualche precoce esperimento di colore e farete di lui una persona felice. Lo stesso vale per chi in Che Guevara ha amato un’ideale politico e vuole approfondire la conoscenza dell’uomo. Tuttavia la mostra non offre molto più di questo e vien da pensare che difficilmente, non fosse diventato un’icona del XX secolo altrimenti, Che Guevara avrebbe guadagnato tanto interesse come fotografo, nonostante le sue opere dimostrino indubbia umanità e sensibilità nel fissare momenti, sguardi e architetture. Tra gli scatti più sorprendenti, le intuizioni di alcuni autoritratti, la serie di testimonianze dall’India e i panorami messicani.

Della mostra, almeno per come è arrivata a Milano, delude più di tutto l’allestimento scarno. Troppo impegnati a celebrare un improbabile Che Guevara grande artista, i quattro o cinque pannelli introduttivi perdono completamente l’opportunità di entrare nel vivo del percorso fotografico, che attira interesse soprattutto in quanto percorso di vita del suo autore. Perfino le didascalie delle immagini non vanno oltre descrizioni generiche e imprecise: dietro Ciminiere, Cuba, 1961 e alle curiose immagini di fabbriche sudamericane, per esempio, c’è un universo di senso che l’occhio contemporaneo fatica a cogliere e che qualche studioso avrebbe potuto aiutare a comporre. Laddove non è pura espressione d’arte, la fotografia è documentazione e ricordo, pertanto vive soprattutto di contesti.

Per chi se ne vuole fare un’idea più precisa, un’ampia introduzione è disponibile in inglese sul sito del Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo, che ha ospitato la retrospettiva nel 2001. Dodici fotografie in mostra sono pubblicate da Virgilio.

Novembre 3 2003

Un fotogramma di Monsieur Ibrahim e i fiori del CoranoPrendi quattro dosi di Kim, tre di Will Hunting e di Scoprendo Forrester, due di Karate Kid (ma può andare bene anche Il ragazzo dal kimono d’oro). Mescola il tutto a lungo e, dopo averlo versato in un bicchiere, aggiungi una scorza di Bagno Turco, una ciliegina alla 400 colpi e guarnisci il tutto con una spolverata di Thelma&Louise. Ecco fatto il cocktail Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano. Che non è niente male, soprattutto se lo prendi con leggerezza, se ti sei fatto depistare a sufficienza dal trailer, se non hai idea di che cosa tratti e se ignori dove vada a parare. Piccolo bignami senza pretese e piuttosto conciliante sulle differenze culturali tra le religioni, il film resta tutto sommato credibile anche quando da storia della formazione alla vita di un sedicenne ebreo preso sotto l’ala protettrice di un anziano commerciante sufi si trasforma in un road movie che parte dalla periferia parigina per arrivare agli sterrati del Corno d’Oro. Misurato nell’alternare elementi scontati a evoluzioni sorprendenti, Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano regala piacevoli chicche, a cominciare dal viaggio raccontato per cieli e per odori. Ottimo il cast, notevoli i due protagonisti (Omar Sharif e il debuttante Pierre Boulanger), bravo il regista François Dupeyron a non farlo scadere in un intollerabile polpettone di buoni sentimenti.

Ottobre 14 2003

Ma sì, il sessantotto. E poi il sessantanove, il settanta, il settantuno, e via fino al duemilauno, duemiladue, duemilatre, e la delusione sul volto di Matthew nella scena finale che è probabilmente la stessa di molti di fronte alle ribellioni ragionevoli di questi anni condotte in modo irragionevole. Non mi è dispiaciuto The Dreamers. Non mi ha nemmeno esaltato, a essere sincero, ma di questi tempi ho fatto l’abitudine a uscire scettico dalla sala. L’ho trovato denso di fascino: a volte sprecato, a volte compiaciuto, a volte intenso e raffinato. Talvolta è superficiale nel dipingere i tre protagonisti e spesso ha il fiato corto nel tenere il filo dei giorni che passano. Tuttavia sulle perplessità trionfano scene e citazioni di grande impatto visivo, che – piaccia o meno il film nella sua interezza – ci accompagneranno a lungo: peccato soltanto che la loro intensità sia stata svilita da settimane di antipazioni su locandine, riviste e tv. Ho amato The Dreamers per brevi istanti, quando è più genuina la complicità adolescenziale tra i protagonisti e i film della loro vita. Nelle scene che si perdono tra presente e pellicola (così come era stato, a modo loro, in Garage Demi o in Nuovo Cinema Paradiso) c’è un tentativo di onorare la magia del cinema nella vita di tutti i giorni che immancabilmente mi emoziona.

Ottobre 5 2003

Elephant, di Gus Van Sant. Palma d’oro e premio alla regia al Festival di Cannes 2003.

Prima di tutto mettiamoci d’accordo sul titolo. La Repubblica: «Si riferisce ai massacri compiuti dai pachidermi impazziti». L’Unità: «Prende il titolo, non a caso, dal simbolo del partito repubblicano». Corriere della Sera: «Van Sant ha preso il suo titolo dall’apologo buddista dei ciechi che cercano di immaginare un elefante, riuscendo soltanto a descrivere la parte che ciascuno può toccare». BBC: «Van Sant took both the title and the multi-perspective style of Elephant from British director Alan Clarke’s 1989 BBC programme about violence in Northern Ireland. Van Sant originally thought that Clarke’s title referred to the old Buddhist parable in which several blind men each examine a different part of an elephant and think that they understand the whole, but it turns out that Clarke was actually referring to the proverbial elephant in the room that everyone sees but no one mentions».

Poi il film. Non sarebbe neanche male se non arrivasse buon ultimo a colpire l’immaginario collettivo con immagini di gioventù perduta e sparatorie nelle scuole. Pescando a caso i primi esempi che mi passano nella testa: Bowling for Columbine, The Basketball Diaries, l’intera collezione di Larry Clark (da Kids a Ken Park), per finire in musica con la sempreverde Jeremy (RA, WM) dei Peal Jam.

Note sparse. Lunghi piani sequenza pedinano in continuazione i protagonisti: bello, anche se ripetitivo. Piccoli fatti visti da più angolazioni: bello, ma non molto originale e in questo caso fin troppo abusato. I personaggi hanno lo stesso nome dei rispettivi attori: tutti bravi, per non essere professionisti. La cornucopia di luoghi comuni nelle ambientazioni, nelle situazioni, nelle musiche e nella caratterizzazione dei personaggi: talmente marcata da sembrare per lo meno voluta. Le occasionali immagini al rallentatore: terribili, soprattutto in un film d’autore. L’uso di suoni e rumori come elemento narrativo di primo piano: questo sì, mi è piaciuto. Il gioco a disorientare lo spettatore con le lunghe passeggiate dei protagonisti, che cambiano direzione ogni volta che chi guarda crede di aver intuito la possibile meta: bello, ma calcato ai limiti della noia.

In definitiva. Non mi ha convinto molto. Non ho capito tutto l’entusiasmo generato a Cannes, dove ha vinto quasi tutto. Mi è sembrata sopravvalutata la reinterpretazione di cose già viste, nonostante il tocco di classe di Gus Van Sant, regista che in genere apprezzo molto. Non mi ha preso alla gola dopo dieci minuti, come promettevano le locandine. E, a costo di sembrare cinico, non mi ha nemmeno sconvolto più di tanto.

Settembre 15 2003

Carino Buongiorno, notte. Peccato che continuassero a interrompere i filmati storici con il film.

No, sul serio: non mi è dispiaciuto del tutto, ha un suo fascino. Però in fin dei conti non è nulla: non è ricostruzione storica, non è approfondimento psicologico, non è fantasia. Si accontenta di essere atmosfera, e forse non basta. Sarà che di recente mi è capitato di leggere la raccolta delle lettere rese pubbliche tra quelle scritte da Moro durante la prigionia: così umane, e tormentate, e politiche che non mi accontento dello sguardo pur originale di Bellocchio.

Di sicuro non mi sorprende che non abbia vinto a Venezia: tutti quei sottointesi su fatti e persone di 25 anni fa devono essere sembrati ben poco immediati agli occhio di uno straniero.

Invece, quelle immagini d’epoca. Ora ho la certezza di subire il fascino di tutto ciò che appartiene a epoche in cui c’ero, ma non ero ancora partecipe. Diciamo tutto quanto è compreso tra il terremoto in Friuli (1976) e i mondiali di calcio in Spagna (1982). E dei piccoli particolari della tv di allora: la sigla del telegiornale (la serie di 2 che spuntavano uno sotto l’altro), le videografiche grezze (i titoli del tg scritti al computer che comparivano a tutto schermo dietro la scrivania), i conduttori (il giovane Giancarlo Santalmassi, il rassicurante Mario Pastore), le voci dei servizi (che facevano così televisione di Stato).

Me lo ricordo, il 1978: ricordo tutto quel parlare di Moro. Di Moro e del Papa polacco, si sentiva parlare. Io non capivo perché i tg fossero così noiosi, in quel periodo. È buffo: venticinque anni dopo, invece, non riesco a capire perché i telegiornali devono intrattenere.

Giugno 16 2003

Neri Marcoré nei panni di Nello BalocchiL’ho inseguito per mesi. Sabato finalmente sono riuscito a vedere Il cuore altrove, l’ultimo film di Pupi Avati. Sarà stata l’aspettativa coltivata a lungo, ma non mi ha convinto affatto.

Bel soggetto, bella ambientazione, bravo Neri Marcoré (che non cede alla macchietta, anche se non completa ogni possibile sfumatura del protagonista), solito poetico stile intimo e sottotraccia del regista. Però non funziona. Sono troppi gli spunti solo accennati: uno su tutti, la seconda famiglia allargata di chi, agli inizi del secolo scorso, era costretto a lasciare la sua città. Troppi i personaggi e le scene funzionali al solo sviluppo della storia: la cieca sorella dell’amante smaliziata del barbiere Nino D’Angelo, un intero versante della storia da dimenticare. Pochi i protagonisti davvero riusciti: bravissimo Giancarlo Giannini, lui sì in grado come pochi di comunicare un mondo intero con una sola battuta, ma sorprendente pure Vanessa Incontrada.

La sensazione è che ci fossero tutti gli ingredienti necessari al capolavoro, ma che per fretta o incostanza o urgenza di raccontarlo Avati si sia fermato molto prima del dovuto. Nello Balocchi, nonostante ciò, è uno dei più bei personaggi creati dal nostro cinema recente. E meritava qualcosa di più.

Per saperne di più: il trailer, le interviste di Mollica, la recensione di KataWeb e quella, piuttosto entusiasta, di Repubblica.

Giugno 2 2003

Una scena di Good Bye, Lenin!Delizioso. Good Bye, Lenin! è davvero delizioso.

Per fortuna che doveva essere un film sui (più o meno stucchevoli) “se” della storia. È, invece, una commedia dolce-amara sui rapporti familiari, sulle radici, sul futuro, sulla politica respirata per la strada, sulle aspirazioni, sul crescere, sulle idee e sulla loro evoluzione, sulla creatività, sull’amore, sulla memoria. Su tante altre cose, in effetti. Ma vale la pena vederlo al buio, senza saperne troppo.

Il film mescola in modo coraggioso divertimento e commozione, ma scansa con eleganza gli eccessi. Eccede, semmai, nel numero di spunti narrativi e tuttavia non arriva mai a compromettere la scorrevolezza. È abbastanza convenzionale nella struttura, ma piacevolmente ricco di guizzi visivi e scene di profondo coinvolgimento emotivo (è splendida, a questo proposito, la scena in cui Lenin compare davvero).

Di Good Bye, Lenin!, che in Germania è in vetta agli incassi, in Italia non si parla molto. Se volete saperne di più, su TrovaCinema sono citati brani dei (pochi) articoli comparsi sui maggiori quotidiani, mentre Kataweb intervista il regista Wolfgang Becker e marquant scrive una recensione originale (che forse può apprezzare fino in fondo solo chi il film lo ha già visto).

Maggio 7 2003

Bowling for Columbine è un documentario di Micheal Moore. Michael Moore è il regista che, ritirando l’Oscar per il miglior documentario (vinto proprio per Bowling for Columbine), ha dichiarato qualcosa del tipo: «A me piace la realtà e invece viviamo in tempi fittizi, in cui elezioni fittizie hanno eletto un uomo fittizio che ci sta portando in guerra per ragioni fittizie». Moore è un tipo bizzarro e coraggioso: provate voi a stare in piedi da soli sul palco più osservato del mondo in quel momento, poco dopo l’11 settembre e subito prima dell’Iraq, e urlare a Bush di vergognarsi. Ha modi piuttosto bruschi e un’ironia pungente, oltre a indubbie doti da intrattenitore e a una faccia tosta come pochi.

Il pretesto da cui parte il suo lungometraggio è il massacro alla Columbine High School di Littleton, dove nel 1999 13 ragazzi e un insegnante furono uccisi da due studenti esaltati. Moore confronta un po’ di dati sulle vittime da arma da fuoco nel mondo e si domanda perché mai negli Stati Uniti i morti siano in proporzione tanto più numerosi. La risposta arriva al termine di un un appassionante viaggio di un’ora e mezza tra sostenitori del dovere di difendersi, parenti delle vittime, lobby delle armi, presunti capri espiatori, forze dell’ordine e originali sintesi della storia americana.

La conclusione di Moore, che si appoggia a teorie già note negli atenei, è che l’America ha paura, e fin qui poco male, ma che questa paura è alimentata e gestita in modo consapevole da politici e mezzi di comunicazione come forma distorta di gestione del consenso e di controllo sociale. Onesto e intelligente nel suo viaggio alla ricerca di una verità (ma talvolta inutilmente furbo in fase di montaggio), Moore costruisce su questo assunto un documento vivace, diretto e spesso ironico, che ha nella curiosità, nell’indignazione e nella compassione i suoi punti di forza.

Il film – perché alla fine questo documentario ha poco da invidiare a un film – va visto anche solo per l’intervista a un fin troppo orgoglioso Charlton Heston (ex Ben Hur del grande schermo e ora presidente della National Rifle Association), per il breve excursus in Canada (dove pare che nessuno si chiuda a chiave nemmeno in casa propria) e per lo spaccato di vita media nella provincia nordamericana, dove l’obbligo morale di difendersi sembra venire prima del diritto e della necessità di farlo.

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