Caro genitore ansioso, son sempre io. Quello che, se tu dici che dobbiamo proteggere di più i nostri figli, lui ribatte polemico che al contrario dovremmo renderli più autonomi. Quello che, se tu proponi di sprangare il cancello, lui non perde l’occasione per suggerire che semmai dovremmo sradicare la recinzione. Quello che ti mette a disagio, perché non va mai ad aiutare suo figlio nello spogliatoio in palestra oppure lo manda da solo in giro per il quartiere a fare piccole commissioni.

Oggi sei particolarmente agitato. Hai letto sul giornale di un brutto fatto di cronaca. Uno dei nostri incubi peggiori: bullismo invisibile, fragilità sottovalutata, disagio esplosivo. Qui, proprio accanto a noi, nella nostra città. Ti fai domande, hai la sensazione che nemmeno tutto il tuo amore potrebbe bastare a preservare tuo figlio dai rischi. La fiducia in chi te lo custodisce per molte ore al giorno, già condizionata, vacilla. Trovi istintiva rassicurazione in chi ostenta soluzioni: dobbiamo stare loro ancora più vicino, passare al setaccio il loro mondo, filtrare le loro comunicazioni, avere tutto sotto controllo.

Mi colpisce una prima differenza tra me e te. Tu sembri identificarti soprattutto in tuo figlio e soffri preventivamente al suo posto, sulla base di un’urgenza emotiva sobillata da terzi. Io mi identifico nell’adolescente che sono stato, ripasso la geografia delle mie cicatrici e provo a marcare i punti di contatto tra la mia esperienza di allora e quella che potrebbe vivere mio figlio. E sai cosa? È davvero una realtà diversa, come sostieni sempre tu. Ma sospetto che la causa sia soprattutto nostra.

Ricordo sempre a me stesso che io già in prima elementare andavo e tornavo da scuola da solo, le chiavi di casa appese al collo. Il pomeriggio, dopo aver fatto i compiti, potevo uscire e andare ai giardinetti o in giro con gli amici del palazzo in bicicletta, lasciando agli adulti soltanto idee sommarie sui luoghi in cui avrei passato il mio tempo e sui compagni di avventure. Non ricordo di essere mai stato accompagnato in palestra a fare sport, dove andavo a piedi portandomi da solo l’attrezzatura necessaria. Godevo di ampi margini di autonomia, disponevo per gran parte del tempo libero delle mie scelte, protetto da maglie di fiducia molto ampie.

Oggi non posso dire lo stesso di mio figlio, che fa la quarta elementare. Lui è costretto a passare dalla sorveglianza di un adulto a quella di un altro adulto, deve essere accompagnato e ripreso in continuazione da scuola a casa, dall’oratorio alla palestra, dal parco alla casa degli amichetti. I suoi tempi e i suoi luoghi sono dettati da, o nel migliore dei casi concordati con, un adulto. Ho preteso per lui tutta l’autonomia che regolamenti e assunzione diretta di responsabilità mi concedono, vincendo l’ottusità delle consuetudini e il biasimo dei miei pari, ma è comunque ben poca cosa, insufficiente a creare anche soltanto una parvenza di quella indipendenza e capacità di badare a se stessi che per noi, alla loro età, era ormai scontata e acquisita.

Ogni tanto invento scuse, per supplire a questa mancanza di spazi: mi vai a prendere il pane? Preferisci restare a casa da solo mentre vado a predere la tua sorellina? Te la senti di andare per conto tuo al compleanno del tuo amico, che poi vengo a riprenderti io? Ti posso lasciare all’incrocio prima della palestra? Devo comunque limitarmi, perché i miei esperimenti generano spesso un disagio controproducente negli adulti che lui incrocia in questi frangenti, un allarme sociale che supplisce alla mia assenza e ripristina il controllo.  Nei suoi occhi invece vedo accendersi la scintilla della sfida, dell’orgoglio, della possibilità, dell’autonomia, che altrimenti sarebbe rimasta spenta. Poi ti lamenti che i giovani di oggi sono apatici: ci credo, gli soffochiamo la fiamma pilota.

Non puoi fare paragoni, ribatti sempre tu a questo punto, sono cambiate troppe cose. Davvero? Il traffico, dici. Di certo ce n’era meno. Ma c’erano anche meno marciapiedi, meno piste ciclabili, meno attraversamenti in sicurezza: cresce tutto in proporzione. Queste sono in ogni caso le strade in cui i nostri figli possono imparare a muoversi consapevolmente e responsabilmente. Ci sono tanti altri pericoli in più, insisti allusivo. I malintenzionati. Non c’erano forse i malintenzionati ai nostri tempi? E non era enormemente più basso il controllo sociale e la consapevolezza di chi si occupava di noi? Ci hanno mai impedito di fare la nostra vita e di crescere accorti, ma liberi e consapevoli della diversità nel bene e nel male attorno a noi? Dove esattamente è subentrata l’idea che dobbiamo svolazzare costantemente accanto a loro come aquile per sindacare in loro vece ogni loro incontro? Non siamo uno spettacolo orrendo noi tutti genitori assiepati sempre in attesa davanti a ogni scuola, ogni giardinetto, ogni palestra, ogni oratorio? Ammettilo, ai nostri tempi li avremmo detestati.

In prima media, improvvisamente, la libertà. A undici anni possono cominciare ad andare a scuola da soli. Tutto d’un tratto è considerato accettabile che i ragazzi si muovano per la città senza sorveglianza. Da un giorno all’altro piomba loro addosso il fardello del badare a se stessi per diverse ore al giorno. Senza progressione, senza allenamento, senza abitudine. Un bel casino, ci hai mai pensato? E proprio nel momento in cui l’adolescenza, l’evoluzione dell’individualità, la malizia e le dinamiche di gruppo cominciano a urlargli nel cervello.

A me questa cosa spaventa, non so a te. Preferirei di gran lunga che i miei figli arrivassero a quel momento sapendo già arrangiarsi senza genitori, avendo messo alla prova i limiti della loro libertà bambina, avendo disegnato con innocenza di fanciulli le mappe di un territorio che hanno imparato a esplorare anche senza guida. Servono spalle abbastanza larghe e gambe ben piantate per resistere agli spintoni del secondo decennio della loro vita, molto più che la custodia amorevole, onnipresente e tuttofare di mamma, papà e nonni. Senza contare che stiamo formando una generazione socialmente rachitica, proprio nel momento in cui gli aliti della storia promettono tempesta.

Mi sono confrontato con dirigenti scolastici, animatori, amministratori. Spesso mi hanno confortato nelle mie convinzioni di gran lunga minoritarie. Tuttavia ammettono di avere le mani legate. Perché non basta il buon senso, quando una comunità è pronta a scaricarti addosso tutta la responsabilità di ciò che può andare storto. Ci siamo abituati a considerare la responsabilità una situazione da evitare o da passare avanti, fino a quando qualcuno non resta col cerino corto e paga per tutti. Mi piacerebbe che tornasse a essere un sacrificio da condividere in modo diffuso nel nome di un progetto comune.

Ecco, io la mia parte di responsabilità me la vorrei prendere tutta. Chiedo monotono in ogni sede e in ogni occasione di farlo. Disperando di convincerti, spero almeno di instillarti un dubbio un po’ alla volta.