Quella che segue è la traccia di una testimonianza portata in questi giorni al consesso online di un gruppo di dirigenti scolastici del Friuli Venezia Giulia. Per tenerne memoria e poiché raccoglie il depositato di alcune esperienze in ambito scolastico e prova ad affrontare alcune implicazioni della congiuntura inaspettata e improbabile che ci troviamo a vivere, la metto a disposizione anche qui.
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Vi parlo senza nascondere la soggezione. Non penso di avere nulla di particolarmente significativo da raccontare a un dirigente scolastico, soprattutto se parliamo di scuola. E devo dire che se non avesse insistito Piervincenzo Di Terlizzi, a cui sono legato oltre che da amicizia di lungo corso anche dalla condivisione di una inveterata sensibilità nerd (peggio: Pordenonerd), probabilmente avrei evitato.
Non so bene che cosa potrei dirvi questa sera, se non provare a tracciare un paio di percorsi trasversali alle mie esperienze di vita, di genitore di due figli in età scolare, di rappresentante di classe, di rappresentante di istituto, di giornalista e di consulente freelance, di formatore saltuario (quest’anno sono entrato in alcune delle vostre classi grazie al progetto Genitori Connessi, in passato ho insegnato all’università e in varie situazioni professionali) e di testimone da ormai quasi trent’anni delle implicazioni della rete e delle innovazioni digitali sulla nostra società.
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Premetto a mo’ di captatio benevolentie che per storia familiare e sensibilità personale conservo il massimo rispetto per l’istituzione scolastica. A prescindere: la scuola la ami e la rispetti anche quando ti fa arrabbiare, soprattutto quando ti fa arrabbiare. Ti arrabbi e ti impegni proprio perché la ami e le riconosci un ruolo fondamentale. E magari la vorresti più pronta, più reattiva, più contemporanea, più aperta. Ma hai capito che tu per primo sei parte di quel cambiamento, che tu come genitore sei parte del problema e sei parte della soluzione.
La scuola a me ha dato moltissimo negli ultimi anni. Mi ha dato forse più da adulto che da bambino. Mi ha restituito a un senso di comunità, al senso dell’impegno in prima persona, alla necessità di affrontare la sfida della complessità e dei cambiamenti giganteschi che stiamo vivendo partendo non tanto dai massimi sistemi, quando dal piccolo, dal piccolissimo, dal locale, dall’iperlocale.
A questa sensibilità mi aveva già avvicinato nel primo decennio del 2000 l’esperienza dei primi blog e poi dei primi social network, che nonostante un carattere introverso ho vissuto come una scuola di civiltà, di partecipazione e di condivisione. L’idea che ognuno di noi sia un nodo in un ecosistema e che il comportamento di ciascuno di noi influisca sul benessere e sul destino di quell’ecosistema. L’idea che il mondo si cambi molto più con l’esempio che con tante parole (l’esempio anche soltanto delle parole che si sceglie di dire e di quelle che si sceglie di non dire). Ma che ciò nonostante, le parole – tante parole, tutte le parole che servono – vadano spese per spiegare, per superare pregiudizi, per condividere punti di vista, per provare a concentrare gli sforzi di tutti se non nella stessa direzione, almeno imprimendo un progresso comune e non invece ostacolandosi vicendevolmente, correndo il rischio di restare fermi.
Ecco, in questo senso la scuola mi ha aiutato a calare quelle intuizioni nel quotidiano, laddove l’impegno non è necessariamente un piacere, tra persone che non si sono scelte per affinità, ma dove invece l’impegno è dovere e sacrificio, perché ti rendi conto che siamo nodi di un ecosistema di quartiere, di città, di plesso, di istituto. E questo ecosistema non raggiunge il benessere perché il preside è bravo e si dà da fare (anche se il preside può fare una enorme differenza), non si raggiunge perché gli insegnanti sono appassionati (anche se la loro bravura è lo scheletro della comunità), non si raggiunge perché gli alunni sono bravi studenti (anche se semplifica molto le cose), ma perché tutti, comprese le famiglie, compresi i genitori, fanno la loro parte e si sentono parte attiva di quella che voi chiamate con un termine che amate tanto e che a me invece pare orribile nella sua eco di burocrazia dispositiva “comunità educante”.
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Citavo la complessità. Io credo che ai dirigenti scolastici andrebbe richiesto non tanto un master in gestione di impresa, come suggerirebbe la pur interessante avventura dell’autonomia, ma un master in gestione della complessità. Voi siete – nella vostra scuola, ma di conseguenza nel vostro quartiere, nella vostra città, nella vostra comunità di riferimento – i custodi ultimi della complessità, i garanti della capacità del vostro ecosistema di adattarsi ai cambiamenti e di trasformare (come in questi giorni) le avversità in opportunità. Imbrigliati da mille lacci normativi, che rischiano di annullare anche la buona volontà, lo so bene, ma questo siete. O dovreste essere. E se lo fa la scuola, di sapersi adattare e trasformare, tutta la società fa un balzo in avanti, perché nelle reti che innervano una comunità voi siete un hub fondamentale, perché unite famiglie, generazioni, istituzioni, ruoli, sistemi economici e sociali.
Perché dico un hub? Un hub è un nodo che gli altri nodi riconoscono come funzionale, di livello superiore, quello più bravo a mettere gli altri in relazione e a far funzionare la società. Ragionate per aeroporti: Fiumicino è un hub perché mette in relazione Ronchi dei Legionari con Olbia o Lampedusa. La scuola è un hub perché spesso mette in relazione persone che non hanno altro in comune se non i figli nella stessa classe, e costoro con il senso dell’istituzione pubblica, primaria, essenziale, condivisa. La scuola è la culla della civiltà, se la scuola funziona è più probabile che anche la comunità funzioni.
La scuola ha rifiutato a lungo di confrontarsi con la complessità, e si vede. La scuola come quasi tutte le istituzioni, e come quasi tutte le istituzioni in modo particolarmente marcato in Italia. Il problema è che la complessità non si recupera, non ci sono esami a settembre. La complessità è la conseguenza di fenomeni evolutivi potentissimi. I fenomeni evolutivi sono esponenziali, la loro curva è funzione di una legge di potenza. Ci sembra un progresso lento e inesorabile, come la rana che si adatta all’acqua sulla via del bollore, invece a un certo punto accelera. E accelera. E accelera. E accelera. E a quel punto è tardi, qualunque mossa è tardiva e l’inseguimento diventa goffo e improbabile.
L’aumento della popolazione mondiale è un fenomeno esponenziale. Il raddoppio della potenza di calcolo dei computer è un fenomeno evolutivo. L’innovazione tecnologica, in generale. Persino le tanto amate o tanto odiate reti sociali online, che crescono in modo esponenziale e in modo esponenziale espongono virtù e vizi all’attenzione generale.
Le gerarchie invece no, non sono esponenziali. Le gerarchie non si adeguano, non scalano abbastanza in fretta, non concepiscono ciò che le rinnega, come per esempio un filtro distribuito del sapere, o una sintesi emergente e in tempo reale delle opinioni pubbliche, o l’informazione che prescinde definitivamente dal titolo a informare. Le gerarchie sono state il sistema operativo del XX secolo. Le gerarchie sono il principale freno all’inizio del XXI secolo. Le gerarchie sono anche il freno a capire che cosa potrà sostituire le gerarchie stesse nella tutela del benessere pubblico e come barriera alle possibili degenerazioni insite nei fenomeni di rete.
In questa tensione ideale tra gerarchia e rete distribuita, tra Stato e comunità interconnessa, tra struttura rigida e capacità di adattamento, tra programmi ministeriali e buone pratiche di periferia, tra 1980 e 2020, tra un’epoca che non riesce a morire e una che non riesce a nascere, in mezzo a queste tensioni enormi tra due visioni sempre più inconciliabili del mondo, proprio lì nel mezzo, state voi e sta il vostro ruolo. Siete chiamati a fare la differenza tradendo. Non diventerete buoni dirigenti scolastici senza che un tradimento segni la vostra storia. Se sarà il tradimento dell’istituzione rigida e burocratica o invece del mondo che aspetta gli studenti che vi sono affidati, e a cui loro comunque sono destinati nonostante voi, starà a voi in coscienza deciderlo.
C’è stato un momento in cui avremmo potuto assecondare e accompagnare il progresso, crescendoci dentro, crescendoci insieme, adattandoci nel mentre. È il momento per esempio in cui a me è stato dato in mano, non richiesto, il primo personal computer, da adolescente. È stato il momento in cui internet ha gemmato il web e ha cominciato a mettere in relazione con facilità persone, idee, strumenti su tutto il pianeta. È stato il momento in cui noi nerd abbiamo cominciato a raccontarvi che quello che stava succedendo in rete avrebbe avuto presto un impatto profondo sulla società. E dunque sulla cultura, sull’informazione, sull’educazione, sull’economia, su ogni aspetto della nostra convivenza. E, se togliete un attimo gli occhi da questa assurda contingenza che peggiora ulteriormente i problemi, qui eravamo ancora un attimo prima che ci travolgesse la pandemia.
Come società abbiamo detto molti no. E oggi siamo il prodotto di quei no. La nostra comunità, impreparata e timorosa, è il frutto delle scelte testarde a non provare, a non approfondire, a non separare il fatto tecnologico dal fatto sociale e culturale, a non provare per crescerci dentro, a non concedere per provare semmai a dominare e indirizzare. Ma il fenomeno evolutivo se ne frega dei no, una volta abilitato. Come uno tsunami: non soltanto travolge, ma cresce, cresce, cresce, cresce. Continua a crescere. E continuerà. Ecco, in questo momento è come se fossimo travolti da due tsunami contemporaneamente, quello da cui non abbiamo saputo difenderci prima e quello nuovo della pandemia, che spazza quel poco che faticosamente stava ancora in piedi.
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Il mondo in cui vi siete trovati improvvisamente a vivere in queste settimane è il mondo in cui io vivo da 25 anni, tolte le mascherine e il distanziamento sociale. Benvenuti. È un mondo dinamico e veloce, in cui è facile e normale vincere le distanze e affrontare i problemi con la tecnologia. Dove si imparano a scegliere gli strumenti non perché graziosi o semplici o inoffensivi, ma perché in grado di reggere un impatto di larga scala (e quanto tempo perso questi giorni, lasciatemelo dire, nel difendere tecnologie indifendibili, inadeguate, naïve, pur di non ascoltare i consigli di chi ci era già passato!).
È un mondo dichiaratamente in equilibrio precario, perché l’equilibrio non è più dato per circolare ministeriale, ma è la sintesi quotidiana degli sforzi e dei contributi di tanti, distribuiti e solidali. Un mondo in cui chi guida è colui o colei che è capace di servire meglio degli altri la comunità. Un mondo in cui la mediocrità non è sostenibile, semplicemente perché facilmente aggirabile. Un mondo in cui il sapere è sempre più distribuito, accessibile, pensato per essere ricombinabile. E le vostre scuole e i vostri insegnanti hanno il compito vitale di insegnare metodi per gestire tutte le decisioni e le ricombinazioni che ogni individuo sarà chiamato a sostenere nella sua vita, in modo più solitario e frequente che mai nella storia dell’umanità. La sfida che questo mondo pone al mondo a cui ancora la vostra scuola appartiene fin nel midollo non è tecnologica, non è questione di aule informatiche e collegamenti a banda larga e lim e software da aggiornare. È culturale.
Se dobbiamo trovare un aspetto positivo di Covid-19, e certo faccio fatica, beh forse questo potrebbe essere che ha riavvicinato questi due mondi. Ha fatto fare al nostro Paese un balzo forzato di digitalizzazione che non stento a definire epocale. E che ha spinto voi rappresentanti delle istituzioni gerarchiche che regolano il mondo della burocrazia a confrontarvi un po’ di più, ad ascoltare un po’ di più noi nerd rompiscatole. Comunque poco, vi siete fidati pochissimo (e in molti casi sulla pelle dei ragazzi, aggiungo), ma riconosco a tanti di voi il merito di averci provato e di aver avviato un dialogo. Questo dialogo è preziosissimo. Questo dialogo sono la calce e i mattoni di cui la nostra società avrà bisogno per cominciare la ricostruzione, quando lo tsunami della pandemia avrà cessato di fare i suoi danni.
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Da genitore e da nerd, quello che posso lasciarvi per alimentare questo dialogo sono un paio di sensazioni che proprio queste settimane mi hanno aiutato a circoscrivere.
La prima è che, su tutto, vince l’umanità. Se dovessi scegliere un aspetto che ha fatto veramente la differenza in positivo o in negativo in queste settimane, questo non è stato la stabilità dei collegamenti, la piattaforma scelta, il numero di ore di lezione a distanza o il modo in cui avete deciso di valutare gli studenti in questa congiuntura, tutte cose che sembrano starvi (legittimamente) molto a cuore, ma l’umanità con cui la scuola è andata (oppure non è andata affatto, o ci è andata malvolentieri) in soccorso dei propri alunni. Esserci, esserci con empatia, esserci sapendo di avere un compito che prescinde dalle materie e dai calendari, esserci anche se così è difficile e bisogna reinventarsi di giorno in giorno. Esserci al di là di ciò che la norma e il contratto di lavoro potevano immaginare.
Io credo che noi genitori in questa occasione abbiamo riscoperto proprio questo aspetto, ovvero il modo in cui la scuola integra e completa il nostro ruolo educativo, e si prende cura dei nostri figli. Ci ha commosso quando questa cura si è rivelata davanti ai nostri occhi, generosa e attenta, e ci ha fatto arrabbiare quando ne abbiamo avvertito l’assenza, con le giustificazioni tipiche di chi omette un soccorso. Su questo punto, credo che l’asticella si sia alzata a un livello tale da non permettervi più di giustificare con graduatorie, motivi sindacali o altre scuse formali i gruppi classe che non funzionano. In questo periodo ho sentito una quantità sorprendente di famiglie prendere in considerazione per il futuro l’home schooling e ho sentito una quantità sorprendente di ragazzi trovare più stimoli in un TED Talk. E se non vi fa male sentire questo, forse avete un problema.
La seconda sensazione è che la scuola può essere a distanza. Non è l’ideale, non è la prima scelta, ma può. E il discrimine non è affatto la tecnologia, ma l’insegnante. Gli insegnanti che erano già pronti, culturalmente e logisticamente, hanno reinventato forme di didattica piene e in grado di agganciare sia il singolo che il gruppo, prenderlo per mano e portarlo avanti in questo inaspettato e tortuoso sentiero che ci è capitato. Nella classe per cui sono rappresentante dei genitori, una classe 2.0 che lavora in modalità capovolta, siamo ripartiti il lunedì dopo Carnevale, non abbiamo perso un colpo, e oltre ad aver tenuto il ritmo rispetto al programma di lavoro per l’anno in corso, alle maestre non ho visto sfuggire una sfumatura, un malessere, una necessità, individuale o di gruppo, esattamente come sarebbe avvenuto in presenza. Riti, ironie, abitudini e gesti si sono adattati di conseguenza. Certo ci vuole talento, passione, preparazione e allenamento, tanto allenamento, ma si può fare. E bisogna volerlo fare. L’insegnamento si fonda sullo spingere ogni giorno i ragazzi un po’ al di là della loro zona di comfort, perché è lì che avviene la magia, è lì che si cresce. Il giorno in cui questo principio non varrà più anche per gli insegnanti e per i dirigenti, quel giorno la scuola comincerà a morire.
A questo proposito, lasciatemi aggiungere che raramente avverto nelle scuole quel salutare processo di rinnovamento generazionale che ci aspetterebbe col passare degli anni e che in altri settori sembra naturale – fatta la tara al fatto che l’Italia è, in genere, un Paese per senatori. Gli sperimentatori più trascinanti ed entusiasti che ho incontrato nel mondo della scuola sono spesso alle soglie della pensione. Non so se sia perché i giovani fatichino a emergere, non so se sia perché serve una carriera per avere la meglio sui mille lacci normativi, non so se sia perché a 60 anni, in un settore sostanzialmente privo di progressioni verticali, senti di avere molto poco da perdere. Ma se fosse vero, e non fosse solo una mia percezione distorta, questo sarebbe un problema. Un sistema che non riesce ad accogliere e valorizzare, o per altri versi a formare, idee nuove e giovani insegnanti in grado di saperle incarnare, di nuovo, è una scuola moribonda.
La terza e ultima sensazione riguarda il gruppo. Io sono convinto che la didattica a distanza di questi giorni avesse valore soprattutto in quanto forma di preservazione e di riscoperta del gruppo, a maggior ragione in una situazione così estrema e improvvisa. Ai singoli, al benessere dei singoli, idealmente provvedevamo già noi genitori. Ma una classe significa soprattutto comunità, relazioni, condivisione. Che cos’era più prezioso che la condivisione o il confronto con un adulto esterno alle dinamiche familiari per elaborare e digerire questa congiuntura, nel pieno dell’emergenza? Mi è sembrata invece una priorità molto sbiadita. La facilità con cui si è pensato e si pensa ancora di dimezzare o parcellizzare le classi per favorire la stabilità dei collegamenti o la qualità dell’insegnamento frontale o in futuro andare incontro alle prescrizioni sanitarie mi continua a stupire.
Una delle cose per cui più sono grato alla scuola, nel percorso dei miei figli, è proprio il modo in cui – attraverso le dinamiche di gruppo – la scuola ha saputo esporli alle differenze. Vivendo in comunità le situazioni in cui erano loro a eccellere, ma non si poteva procedere finché tutti gli altri non li avevano raggiunti. E quelle in cui invece erano loro a rimanere indietro, ed erano loro quelli che il gruppo si fermava ad aspettare. Sono convinto che molte cose i miei figli avrebbero comunque potuto impararle altrove, ma il confronto quotidiano con chi è più abile di te o diversamente abile, con chi è nato nel tuo stesso palazzo o molti confini più in là, con chi è molto più ricco o molto più povero, più curato dalla propria famiglia o meno curato, più talentuoso di te anche nella materia in cui pensi di eccellere, tutto questo è la vera essenza della scuola (pubblica, mi verrebbe da aggiungere, pur nel rispetto per chi fa altre scelte) e la vera grandezza del suo progetto educativo e di civiltà. Perché è qui che impari a mettere te stesso e le tue ambizioni in prospettiva, ed è qui che impari che non potrai mai procedere da solo, ma che è l’unione di tante differenze a fare di te qualunque cosa vorrai diventare un giorno.
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Vi lascio qui, a uno snodo della storia, in cui alla scuola a quanto pare non bastano impiegati, ma servono eroi. Sogno una scuola a cui i cittadini mandino spontaneamente dolci o battano le mani dai balconi, come a medici e infermieri nei giorni scorsi. Voi dovrete essere sempre più maestri d’orchestra della complessità. Esperti in contemporaneità. Virtuosi del buon senso. Traghettatori tra il mondo che era (e difficilmente sarà ancora) e il mondo che sarà, e che per molti di noi (e tra questi buona parte dei vostri alunni) già è. Come nella leggenda di San Cristoforo, voi siete i giganti maestosi e terribili che possono aiutare il fanciullo mite e grazioso ad attraversare il fiume impetuoso, barcollando sotto il suo peso, perché quello a sua volta porta sulle spalle il peso del mondo intero. Se vi spaventate davanti alla corrente oppure eccepite che non sta scritto da nessuna parte che sia compito vostro attraversare quel fiume impetuoso, il fanciullo molto probabilmente sarà destinato a restare lì con voi. E il mondo con lui. A voi però, molto più che a tanti altri in questo momento, sta decidere come proseguirà la sua storia.