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Tag: covid

Giugno 10 2021

Allora ci salutiamo qui, piccola grande scuola Gozzi.

La mia famiglia e io siamo entrati una mattina di dicembre del 2011 e ne siamo diventati parte prima ancora di averlo deciso. Ricordo l’accoglienza, il calore, la percezione di uno stato di grazia che fondeva la passione e l’impegno di tutti in qualcosa di più grande e coinvolgente.

Per i nostri figli è stata un’esperienza felice. Due cicli molto diversi, ugualmente fondamentali. Tre cose almeno hanno avuto in comune: la cura, il senso di possibilità e l’idea che i muri non fossero un confine.

Grazie per la povertà, che è la cifra della scuola pubblica in quest’epoca miope: ci ha spinto a non dare mai nulla per scontato, a dare prima che a ricevere, a tirare fuori il massimo da ciascuno e il meglio da ogni cosa.

E grazie per la diversità: diversi per storie, provenienze, ambizioni, abilità, non è stato sempre scontato arrivare in fondo, salvo accorgerci a destinazione che quella fatica era gran parte del senso.

Da quelle porte è entrata tanta vita: dieci anni di vita della nostra famiglia, del nostro quartiere, della nostra comunità. Abbiamo vissuto gioie grandi, fieri orgogli, lutti da cui risorgere. Abbiamo attraversato la paralisi sociale di quest’ultimo anno e mezzo. Ne usciamo oggi un po’ cambiati, forse più maturi – noi adulti soprattutto.

Non è nemmeno l’ombra della conclusione che immaginavamo, questa di oggi, senza il calore dell’abbraccio né un testimone da passare. Eppure anche in questo ci insegni: che non ci si ferma, che non viene meno il momento. Neanche se è difficile. Neanche se manca la gratificazione.

Che tu possa ritrovare quella grazia e continuare a essere per tante altre famiglie la fonderia di comunità che sei stata per noi. Grazie.

Maggio 14 2020

Quella che segue è la traccia di una testimonianza portata in questi giorni al consesso online di un gruppo di dirigenti scolastici del Friuli Venezia Giulia. Per tenerne memoria e poiché raccoglie il depositato di alcune esperienze in ambito scolastico e prova ad affrontare alcune implicazioni della congiuntura inaspettata e improbabile che ci troviamo a vivere, la metto a disposizione anche qui.

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Vi parlo senza nascondere la soggezione. Non penso di avere nulla di particolarmente significativo da raccontare a un dirigente scolastico, soprattutto se parliamo di scuola. E devo dire che se non avesse insistito Piervincenzo Di Terlizzi, a cui sono legato oltre che da amicizia di lungo corso anche dalla condivisione di una inveterata sensibilità nerd (peggio: Pordenonerd), probabilmente avrei evitato.

Non so bene che cosa potrei dirvi questa sera, se non provare a tracciare un paio di percorsi trasversali alle mie esperienze di vita, di genitore di due figli in età scolare, di rappresentante di classe, di rappresentante di istituto, di giornalista e di consulente freelance, di formatore saltuario (quest’anno sono entrato in alcune delle vostre classi grazie al progetto Genitori Connessi, in passato ho insegnato all’università e in varie situazioni professionali) e di testimone da ormai quasi trent’anni delle implicazioni della rete e delle innovazioni digitali sulla nostra società.

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Premetto a mo’ di captatio benevolentie che per storia familiare e sensibilità personale conservo il massimo rispetto per l’istituzione scolastica. A prescindere: la scuola la ami e la rispetti anche quando ti fa arrabbiare, soprattutto quando ti fa arrabbiare. Ti arrabbi e ti impegni proprio perché la ami e le riconosci un ruolo fondamentale. E magari la vorresti più pronta, più reattiva, più contemporanea, più aperta. Ma hai capito che tu per primo sei parte di quel cambiamento, che tu come genitore sei parte del problema e sei parte della soluzione.

La scuola a me ha dato moltissimo negli ultimi anni. Mi ha dato forse più da adulto che da bambino. Mi ha restituito a un senso di comunità, al senso dell’impegno in prima persona, alla necessità di affrontare la sfida della complessità e dei cambiamenti giganteschi che stiamo vivendo partendo non tanto dai massimi sistemi, quando dal piccolo, dal piccolissimo, dal locale, dall’iperlocale.

A questa sensibilità mi aveva già avvicinato nel primo decennio del 2000 l’esperienza dei primi blog e poi dei primi social network, che nonostante un carattere introverso ho vissuto come una scuola di civiltà, di partecipazione e di condivisione. L’idea che ognuno di noi sia un nodo in un ecosistema e che il comportamento di ciascuno di noi influisca sul benessere e sul destino di quell’ecosistema. L’idea che il mondo si cambi molto più con l’esempio che con tante parole (l’esempio anche soltanto delle parole che si sceglie di dire e di quelle che si sceglie di non dire). Ma che ciò nonostante, le parole – tante parole, tutte le parole che servono – vadano spese per spiegare, per superare pregiudizi, per condividere punti di vista, per provare a concentrare gli sforzi di tutti se non nella stessa direzione, almeno imprimendo un progresso comune e non invece ostacolandosi vicendevolmente, correndo il rischio di restare fermi.

Ecco, in questo senso la scuola mi ha aiutato a calare quelle intuizioni nel quotidiano, laddove l’impegno non è necessariamente un piacere, tra persone che non si sono scelte per affinità, ma dove invece l’impegno è dovere e sacrificio, perché ti rendi conto che siamo nodi di un ecosistema di quartiere, di città, di plesso, di istituto. E questo ecosistema non raggiunge il benessere perché il preside è bravo e si dà da fare (anche se il preside può fare una enorme differenza), non si raggiunge perché gli insegnanti sono appassionati (anche se la loro bravura è lo scheletro della comunità), non si raggiunge perché gli alunni sono bravi studenti (anche se semplifica molto le cose), ma perché tutti, comprese le famiglie, compresi i genitori, fanno la loro parte e si sentono parte attiva di quella che voi chiamate con un termine che amate tanto e che a me invece pare orribile nella sua eco di burocrazia dispositiva “comunità educante”.

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Citavo la complessità. Io credo che ai dirigenti scolastici andrebbe richiesto non tanto un master in gestione di impresa, come suggerirebbe la pur interessante avventura dell’autonomia, ma un master in gestione della complessità. Voi siete – nella vostra scuola, ma di conseguenza nel vostro quartiere, nella vostra città, nella vostra comunità di riferimento – i custodi ultimi della complessità, i garanti della capacità del vostro ecosistema di adattarsi ai cambiamenti e di trasformare (come in questi giorni) le avversità in opportunità. Imbrigliati da mille lacci normativi, che rischiano di annullare anche la buona volontà, lo so bene, ma questo siete. O dovreste essere. E se lo fa la scuola, di sapersi adattare e trasformare, tutta la società fa un balzo in avanti, perché nelle reti che innervano una comunità voi siete un hub fondamentale, perché unite famiglie, generazioni, istituzioni, ruoli, sistemi economici e sociali.

Perché dico un hub? Un hub è un nodo che gli altri nodi riconoscono come funzionale, di livello superiore, quello più bravo a mettere gli altri in relazione e a far funzionare la società. Ragionate per aeroporti: Fiumicino è un hub perché mette in relazione Ronchi dei Legionari con Olbia o Lampedusa. La scuola è un hub perché spesso mette in relazione persone che non hanno altro in comune se non i figli nella stessa classe, e costoro con il senso dell’istituzione pubblica, primaria, essenziale, condivisa. La scuola è la culla della civiltà, se la scuola funziona è più probabile che anche la comunità funzioni.

La scuola ha rifiutato a lungo di confrontarsi con la complessità, e si vede. La scuola come quasi tutte le istituzioni, e come quasi tutte le istituzioni in modo particolarmente marcato in Italia. Il problema è che la complessità non si recupera, non ci sono esami a settembre. La complessità è la conseguenza di fenomeni evolutivi potentissimi. I fenomeni evolutivi sono esponenziali, la loro curva è funzione di una legge di potenza. Ci sembra un progresso lento e inesorabile, come la rana che si adatta all’acqua sulla via del bollore, invece a un certo punto accelera. E accelera. E accelera. E accelera. E a quel punto è tardi, qualunque mossa è tardiva e l’inseguimento diventa goffo e improbabile.

L’aumento della popolazione mondiale è un fenomeno esponenziale. Il raddoppio della potenza di calcolo dei computer è un fenomeno evolutivo. L’innovazione tecnologica, in generale. Persino le tanto amate o tanto odiate reti sociali online, che crescono in modo esponenziale e in modo esponenziale espongono virtù e vizi all’attenzione generale.

Le gerarchie invece no, non sono esponenziali. Le gerarchie non si adeguano, non scalano abbastanza in fretta, non concepiscono ciò che le rinnega, come per esempio un filtro distribuito del sapere, o una sintesi emergente e in tempo reale delle opinioni pubbliche, o l’informazione che prescinde definitivamente dal titolo a informare. Le gerarchie sono state il sistema operativo del XX secolo. Le gerarchie sono il principale freno all’inizio del XXI secolo. Le gerarchie sono anche il freno a capire che cosa potrà sostituire le gerarchie stesse nella tutela del benessere pubblico e come barriera alle possibili degenerazioni insite nei fenomeni di rete.

In questa tensione ideale tra gerarchia e rete distribuita, tra Stato e comunità interconnessa, tra struttura rigida e capacità di adattamento, tra programmi ministeriali e buone pratiche di periferia, tra 1980 e 2020, tra un’epoca che non riesce a morire e una che non riesce a nascere, in mezzo a queste tensioni enormi tra due visioni sempre più inconciliabili del mondo, proprio lì nel mezzo, state voi e sta il vostro ruolo. Siete chiamati a fare la differenza tradendo. Non diventerete buoni dirigenti scolastici senza che un tradimento segni la vostra storia. Se sarà il tradimento dell’istituzione rigida e burocratica o invece del mondo che aspetta gli studenti che vi sono affidati, e a cui loro comunque sono destinati nonostante voi, starà a voi in coscienza deciderlo.

C’è stato un momento in cui avremmo potuto assecondare e accompagnare il progresso, crescendoci dentro, crescendoci insieme, adattandoci nel mentre. È il momento per esempio in cui a me è stato dato in mano, non richiesto, il primo personal computer, da adolescente. È stato il momento in cui internet ha gemmato il web e ha cominciato a mettere in relazione con facilità persone, idee, strumenti su tutto il pianeta. È stato il momento in cui noi nerd abbiamo cominciato a raccontarvi che quello che stava succedendo in rete avrebbe avuto presto un impatto profondo sulla società. E dunque sulla cultura, sull’informazione, sull’educazione, sull’economia, su ogni aspetto della nostra convivenza. E, se togliete un attimo gli occhi da questa assurda contingenza che peggiora ulteriormente i problemi, qui eravamo ancora un attimo prima che ci travolgesse la pandemia.

Come società abbiamo detto molti no. E oggi siamo il prodotto di quei no. La nostra comunità, impreparata e timorosa, è il frutto delle scelte testarde a non provare, a non approfondire, a non separare il fatto tecnologico dal fatto sociale e culturale, a non provare per crescerci dentro, a non concedere per provare semmai a dominare e indirizzare. Ma il fenomeno evolutivo se ne frega dei no, una volta abilitato. Come uno tsunami: non soltanto travolge, ma cresce, cresce, cresce, cresce. Continua a crescere. E continuerà. Ecco, in questo momento è come se fossimo travolti da due tsunami contemporaneamente, quello da cui non abbiamo saputo difenderci prima e quello nuovo della pandemia, che spazza quel poco che faticosamente stava ancora in piedi.

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Il mondo in cui vi siete trovati improvvisamente a vivere in queste settimane è il mondo in cui io vivo da 25 anni, tolte le mascherine e il distanziamento sociale. Benvenuti. È un mondo dinamico e veloce, in cui è facile e normale vincere le distanze e affrontare i problemi con la tecnologia. Dove si imparano a scegliere gli strumenti non perché graziosi o semplici o inoffensivi, ma perché in grado di reggere un impatto di larga scala (e quanto tempo perso questi giorni, lasciatemelo dire, nel difendere tecnologie indifendibili, inadeguate, naïve, pur di non ascoltare i consigli di chi ci era già passato!).

È un mondo dichiaratamente in equilibrio precario, perché l’equilibrio non è più dato per circolare ministeriale, ma è la sintesi quotidiana degli sforzi e dei contributi di tanti, distribuiti e solidali. Un mondo in cui chi guida è colui o colei che è capace di servire meglio degli altri la comunità. Un mondo in cui la mediocrità non è sostenibile, semplicemente perché facilmente aggirabile. Un mondo in cui il sapere è sempre più distribuito, accessibile, pensato per essere ricombinabile. E le vostre scuole e i vostri insegnanti hanno il compito vitale di insegnare metodi per gestire tutte le decisioni e le ricombinazioni che ogni individuo sarà chiamato a sostenere nella sua vita, in modo più solitario e frequente che mai nella storia dell’umanità. La sfida che questo mondo pone al mondo a cui ancora la vostra scuola appartiene fin nel midollo non è tecnologica, non è questione di aule informatiche e collegamenti a banda larga e lim e software da aggiornare. È culturale.

Se dobbiamo trovare un aspetto positivo di Covid-19, e certo faccio fatica, beh forse questo potrebbe essere che ha riavvicinato questi due mondi. Ha fatto fare al nostro Paese un balzo forzato di digitalizzazione che non stento a definire epocale. E che ha spinto voi rappresentanti delle istituzioni gerarchiche che regolano il mondo della burocrazia a confrontarvi un po’ di più, ad ascoltare un po’ di più noi nerd rompiscatole. Comunque poco, vi siete fidati pochissimo (e in molti casi sulla pelle dei ragazzi, aggiungo), ma riconosco a tanti di voi il merito di averci provato e di aver avviato un dialogo. Questo dialogo è preziosissimo. Questo dialogo sono la calce e i mattoni di cui la nostra società avrà bisogno per cominciare la ricostruzione, quando lo tsunami della pandemia avrà cessato di fare i suoi danni.

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Da genitore e da nerd, quello che posso lasciarvi per alimentare questo dialogo sono un paio di sensazioni che proprio queste settimane mi hanno aiutato a circoscrivere.

La prima è che, su tutto, vince l’umanità. Se dovessi scegliere un aspetto che ha fatto veramente la differenza in positivo o in negativo in queste settimane, questo non è stato la stabilità dei collegamenti, la piattaforma scelta, il numero di ore di lezione a distanza o il modo in cui avete deciso di valutare gli studenti in questa congiuntura, tutte cose che sembrano starvi (legittimamente) molto a cuore, ma l’umanità con cui la scuola è andata (oppure non è andata affatto, o ci è andata malvolentieri) in soccorso dei propri alunni. Esserci, esserci con empatia, esserci sapendo di avere un compito che prescinde dalle materie e dai calendari, esserci anche se così è difficile e bisogna reinventarsi di giorno in giorno. Esserci al di là di ciò che la norma e il contratto di lavoro potevano immaginare.

Io credo che noi genitori in questa occasione abbiamo riscoperto proprio questo aspetto, ovvero il modo in cui la scuola integra e completa il nostro ruolo educativo, e si prende cura dei nostri figli. Ci ha commosso quando questa cura si è rivelata davanti ai nostri occhi, generosa e attenta, e ci ha fatto arrabbiare quando ne abbiamo avvertito l’assenza, con le giustificazioni tipiche di chi omette un soccorso. Su questo punto, credo che l’asticella si sia alzata a un livello tale da non permettervi più di giustificare con graduatorie, motivi sindacali o altre scuse formali i gruppi classe che non funzionano. In questo periodo ho sentito una quantità sorprendente di famiglie prendere in considerazione per il futuro l’home schooling e ho sentito una quantità sorprendente di ragazzi trovare più stimoli in un TED Talk. E se non vi fa male sentire questo, forse avete un problema.

La seconda sensazione è che la scuola può essere a distanza. Non è l’ideale, non è la prima scelta, ma può. E il discrimine non è affatto la tecnologia, ma l’insegnante. Gli insegnanti che erano già pronti, culturalmente e logisticamente, hanno reinventato forme di didattica piene e in grado di agganciare sia il singolo che il gruppo, prenderlo per mano e portarlo avanti in questo inaspettato e tortuoso sentiero che ci è capitato. Nella classe per cui sono rappresentante dei genitori, una classe 2.0 che lavora in modalità capovolta, siamo ripartiti il lunedì dopo Carnevale, non abbiamo perso un colpo, e oltre ad aver tenuto il ritmo rispetto al programma di lavoro per l’anno in corso, alle maestre non ho visto sfuggire una sfumatura, un malessere, una necessità, individuale o di gruppo, esattamente come sarebbe avvenuto in presenza. Riti, ironie, abitudini e gesti si sono adattati di conseguenza. Certo ci vuole talento, passione, preparazione e allenamento, tanto allenamento, ma si può fare. E bisogna volerlo fare. L’insegnamento si fonda sullo spingere ogni giorno i ragazzi un po’ al di là della loro zona di comfort, perché è lì che avviene la magia, è lì che si cresce. Il giorno in cui questo principio non varrà più anche per gli insegnanti e per i dirigenti, quel giorno la scuola comincerà a morire.

A questo proposito, lasciatemi aggiungere che raramente avverto nelle scuole quel salutare processo di rinnovamento generazionale che ci aspetterebbe col passare degli anni e che in altri settori sembra naturale – fatta la tara al fatto che l’Italia è, in genere, un Paese per senatori. Gli sperimentatori più trascinanti ed entusiasti che ho incontrato nel mondo della scuola sono spesso alle soglie della pensione. Non so se sia perché i giovani fatichino a emergere, non so se sia perché serve una carriera per avere la meglio sui mille lacci normativi, non so se sia perché a 60 anni, in un settore sostanzialmente privo di progressioni verticali, senti di avere molto poco da perdere. Ma se fosse vero, e non fosse solo una mia percezione distorta, questo sarebbe un problema. Un sistema che non riesce ad accogliere e valorizzare, o per altri versi a formare, idee nuove e giovani insegnanti in grado di saperle incarnare, di nuovo, è una scuola moribonda.

La terza e ultima sensazione riguarda il gruppo. Io sono convinto che la didattica a distanza di questi giorni avesse valore soprattutto in quanto forma di preservazione e di riscoperta del gruppo, a maggior ragione in una situazione così estrema e improvvisa. Ai singoli, al benessere dei singoli, idealmente provvedevamo già noi genitori. Ma una classe significa soprattutto comunità, relazioni, condivisione. Che cos’era più prezioso che la condivisione o il confronto con un adulto esterno alle dinamiche familiari per elaborare e digerire questa congiuntura, nel pieno dell’emergenza? Mi è sembrata invece una priorità molto sbiadita. La facilità con cui si è pensato e si pensa ancora di dimezzare o parcellizzare le classi per favorire la stabilità dei collegamenti o la qualità dell’insegnamento frontale o in futuro andare incontro alle prescrizioni sanitarie mi continua a stupire.

Una delle cose per cui più sono grato alla scuola, nel percorso dei miei figli, è proprio il modo in cui – attraverso le dinamiche di gruppo – la scuola ha saputo esporli alle differenze. Vivendo in comunità le situazioni in cui erano loro a eccellere, ma non si poteva procedere finché tutti gli altri non li avevano raggiunti. E quelle in cui invece erano loro a rimanere indietro, ed erano loro quelli che il gruppo si fermava ad aspettare. Sono convinto che molte cose i miei figli avrebbero comunque potuto impararle altrove, ma il confronto quotidiano con chi è più abile di te o diversamente abile, con chi è nato nel tuo stesso palazzo o molti confini più in là, con chi è molto più ricco o molto più povero, più curato dalla propria famiglia o meno curato, più talentuoso di te anche nella materia in cui pensi di eccellere, tutto questo è la vera essenza della scuola (pubblica, mi verrebbe da aggiungere, pur nel rispetto per chi fa altre scelte) e la vera grandezza del suo progetto educativo e di civiltà. Perché è qui che impari a mettere te stesso e le tue ambizioni in prospettiva, ed è qui che impari che non potrai mai procedere da solo, ma che è l’unione di tante differenze a fare di te qualunque cosa vorrai diventare un giorno.

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Vi lascio qui, a uno snodo della storia, in cui alla scuola a quanto pare non bastano impiegati, ma servono eroi. Sogno una scuola a cui i cittadini mandino spontaneamente dolci o battano le mani dai balconi, come a medici e infermieri nei giorni scorsi. Voi dovrete essere sempre più maestri d’orchestra della complessità. Esperti in contemporaneità. Virtuosi del buon senso. Traghettatori tra il mondo che era (e difficilmente sarà ancora) e il mondo che sarà, e che per molti di noi (e tra questi buona parte dei vostri alunni) già è. Come nella leggenda di San Cristoforo, voi siete i giganti maestosi e terribili che possono aiutare il fanciullo mite e grazioso ad attraversare il fiume impetuoso, barcollando sotto il suo peso, perché quello a sua volta porta sulle spalle il peso del mondo intero. Se vi spaventate davanti alla corrente oppure eccepite che non sta scritto da nessuna parte che sia compito vostro attraversare quel fiume impetuoso, il fanciullo molto probabilmente sarà destinato a restare lì con voi. E il mondo con lui. A voi però, molto più che a tanti altri in questo momento, sta decidere come proseguirà la sua storia.

Aprile 7 2020

Per la cristianità sono i giorni simbolici della rinascita. Giorni metaforicamente potenti e universali, per chi ama leggere al di là dei riti e dei dogmi. Più che mai potenti quest’anno, nel pieno di una catastrofe che investe il mondo intero e un’intera idea di mondo.

Giovedì santo, l’ultima cena di Cristo con gli apostoli, la lavanda dei piedi. Una celebrazione che magari vivi con imbarazzato distacco, ma che intanto ti scava dentro. Chi vuole essere più grande, chi vuole essere il primo, si faccia servo di tutti. Non il piacere, ma la necessità di servire. Pensi ai medici, agli infermieri, agli operatori socio-sanitari, ai volontari, che si sono guadagnati sul campo e per sentimento popolare il ruolo dell’eroe di questa storia disgraziata. Pensi ai governanti senza più alcun privilegio né onore, schiacciati dal peso di una responsabilità inaudita, tanto più grandi, primi tra i loro pari, quanto più sapranno servire la porzione di umanità che è loro affidata e portarla in salvo. Pensi alla sfida posta a ciascuno di noi, nel riuscire a essere d’aiuto da dentro un isolamento forzato che annulla ruoli, identità e raggio d’azione. Pensi alla beffa di una situazione gigantesca che ai più richiede di essere grandi nel piccolissimo, avendo cura di piccole cose.

Venerdì santo, la passione lungo la via della croce. Le quattordici stazioni della via dolorosa, che in genere hanno per sfondo le mura di ogni chiesa e le vie di tanti quartieri, sono invece quest’anno le piazze vuote delle metropoli del mondo, spogliate d’ogni vita e della sostanza stessa della civiltà. Sono l’incapacità delle organizzazioni umane di concepire il mondo come epicentro dell’emergenza e mondiali i suoi rimedi. Sono le zone più derelitte della terra che sembrano risparmiate, perché la loro epidemia non ha forza di farsi notizia. Sono i senzatetto posteggiati come fossero auto. Sono la recita quotidiana dei numeri, sfinita tanto negli occhi di chi parla quanto in quelli di chi ascolta. Sono le auto che gridano ripetitive dai megafoni alle altre auto parcheggiate. Sono le file silenziose davanti ai supermercati, perché tutto quel che esce da quelle bocche potrebbe essere contagioso. Sono i lavori che continuiamo a fare dalle nostre case, per convincerci che dopo avranno ancora lo stesso senso. Siamo noi che non l’abbiamo vista arrivare finché non ci eravamo dentro fino al collo. Sono le piccole e grandi infrazioni con cui sfidiamo il coprifuoco. Siamo noi che rispondiamo con la mano sulla bocca e gli occhi spaventati alle offerte di aiuto dei nostri vicini. Sono le nostre case sprangate a nascondere il naufragio. Sono la codardia che ci impedisce di fare la differenza nelle sfide inedite di ogni giorno. Sono le morti dei nostri cari nella solitudine e senza commiato.

Sabato santo, la discesa agli inferi, il silenzio attonito, il raccoglimento disorientato, la meditazione costretta, l’introspezione che spaventa, la solitudine senza rito. Il nostro sabato dura ormai da settimane e ancora non si vede il tramonto. Giorno identico che si ripete uguale a se stesso, sfidandoci fino allo sfinimento a cavarne un senso e magari a uscirne migliori. Promessa di una luce che vincerà la notte, portata da chi l’avrà custodita e contagiata di candela in candela fino a riconoscere nella penombra la sagoma di una comunità stretta stretta, come nelle chiese durante le veglie della vigilia. Una vittoria che al bagliore del giorno non avrebbe potuto essere, perché allo scopo è necessaria la tenebra più oscura.

Domenica di Pasqua, Pasqua di risurrezione. Non esiste garanzia di risurrezione. Risurrezione non è sopravvivenza, non si risorge per tornare alla vita di prima. Non si risorge senza prima morire, almeno simbolicamente. Non si risorge fregando la morte, ma affrontandola per sperare di uscirne persone nuove in un mondo nuovo, rivoluzionari nella propria storia. Risurrezione è rinascita. Saremo capaci di rinascere da questa esperienza? Saremo capaci di farlo assieme? Sapremo interpretare il nuovo mondo che sarà riservato ai più fortunati tra noi? Sapremo consegnarlo ai nostri figli?

Felice come una Pasqua, scrive un’infermiera piemontese in una struggente testimonianza al sindaco del suo paese. Racconta di una madre in condizioni ormai critiche, disperata perché le viene negata la possibilità di congedarsi dai quattro figli amatissimi. L’infermiera spiega di averle prestato il proprio telefono e di aver improvvisato una videochiamata coi familiari. Riferisce la commozione e l’orgoglio nell’aver visto quei cerchi chiudersi appena in tempo, prima che quella vita si spegnesse, grata e tra parole di gratitudine. «Era felice come una Pasqua», dice l’infermiera, «e tu con lei». Ed è in quella felicità straziante, per quanto mi riguarda, che resta impigliato il senso di questa Pasqua straordinaria e terribile del 2020.

Marzo 24 2020

Ehi tu, decenne.

Proprio tu, che osservi con sguardo regale tuo fratello che ti porta la colazione a letto, “come ho sempre desiderato”. Tu, che aspettavi con ansia il primo compleanno a doppia cifra, ma forse non te lo immaginavi così. Che hai festeggiato per tutto il giorno sovraeccitata e radiosa calciando palloncini nello stesso salotto in cui sei venuta al mondo. Che hai ricevuto gli auguri dei tuoi compagni di classe durante la lezione online, e ti hanno cantato due volte la canzone tutti insieme e la maestra ha spento per te la prima candela che ha trovato in casa e poi papà ha cominciato a tirare su col naso perché devono essere i primi pollini nell’aria.

Tu, che hai spento le candeline sulla pizza ai wurstel del papà e sulla torta al cioccolato della mamma. Che oggi hai preparato il tuo primo gelato fatto in casa, ovviamente al gusto di cioccolato, perché la tua gelateria venderà soltanto gelato al cioccolato e di quel particolare tipo di cioccolato che dici tu. Tu, sguardo obliquo da ingegnere che insegue geometrie tutte sue nell’ordine delle cose. Dura quando giocano i duri, spaesata nei bicchieri d’acqua. Tu, che sei sempre circondata da amici e appena puoi evadi da questa casa, mentre ora sei costretta a rimanerci sempre, ma non lo fai pesare quasi mai.

Tu, che hai chiuso la giornata dicendo che è stato un compleanno bellissimo, anche se non il migliore, e c’ha detto pure bene.

Ehi tu, proprio tu, buon compleanno dal tuo papà

Marzo 21 2020

Leggere la testimonianza di Fra Aquilino Apassiti, missionario cappuccino ottantaquattrenne in servizio presso la cappella dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, che con grande umanità e senso del presente sfida le distanze fisiche per permettere ai parenti dei defunti quell’estremo saluto che la situazione non concede, mi ha avviato uno dei vari smottamenti emotivi di queste ore.

Come la puntina di un vecchio giradischi che reagisce a una scossa, questa storia mi ha fatto fare un balzo allo scorso mese di dicembre. Dicembre per me è stato un mese straordinario, grazie a un particolare groviglio di vicende personali e professionali. Da qualche settimana mi era capitata l’avventura inaspettata e prodigiosa di lavorare dentro un ospedale oncologico. Inoltre, in quei giorni, in quello stesso ospedale, era ricoverata una persona a me molto cara.

Il modo in cui un periodo simbolico come quello dell’Avvento entra in un luogo di frontiera della vita è particolare, fatto di un miscuglio di simboli, eventi, cerimonie, gesti, contiguità, sorrisi, presenze, calore, che prescinde dai percorsi spirituali di ciascuno ed è capace di segnare in profondità l’animo di chiunque abbia la forza di aprire abbastanza il cuore. Per me è stata un’esperienza potente, da cui traggo ancora ispirazione e resilienza.

Alle porte di Natale si tenne un concerto degli alpini della vicina sezione. Era tardi, per gli orari di un ospedale, i pazienti erano ormai tutti già rientrati nelle loro stanze. Così il coro si trovò a cantare davanti a un salone completamente vuoto e in un edificio immerso nel silenzio. Superato il disorientamento, gli alpini si presentarono così: siamo venuti a cantare per voi, non davanti a voi, speriamo che il nostro canto vi raggiunga fin dentro alle vostre stanze, insieme con il nostro augurio di pronta guarigione.

Li guardavo cantare e sentivo le note salire di piano in piano. Nella mia fantasia superavano perfino i rigidi controlli della terapia intensiva, da dove ero appena uscito al termine dell’orario di visita, per portare una carezza anche lì. Fu un momento di sospensione, sostenuto da un canto generoso e sincero. Terminò, vinto qualche tentennamento per il particolare contesto, con Signore delle cime, la struggente preghiera funebre della tradizione alpina che sa farsi inno universale di amicizia, di rispetto, di condivisione, di comunanza. Ognuno di noi probabilmente ha una o più emozioni legate a questa canzone, e a me quella sera uscirono tutte.

Il Coro ANA Aviano mi perdonerà se rubo tre minuti di quella loro esibizione, così preziosa nella mia memoria, per dedicarli idealmente ai morti senza conforto di queste settimane sgarbate. Immaginando che il canto di quella sera possa ripetere il prodigio e raggiungerli fin nei depositi anonimi, nei camion militari, nei cimiteri deserti, nobilitando la distanza fisica e spesso, per difesa, emotiva con cui ci stiamo congedando da loro.