Le ultime volte che ho incontrato Elisabetta Tola – amica e collega con cui condivido tra l’altro le docenze al Master in Comunicazione della Scienza alla Sissa di Trieste e l’interesse per le frontiere del giornalismo in rete – lei era regolarmente in procinto di partire con Marco Boscolo per l’Africa o per il Medio Oriente. Sapevo che si era aggiudicata un grant dell’European Journalism Center finanziato dalla Bill and Melinda Gates Foundation per lo sviluppo di un reportage innovativo sulla biodiversità. I primi dettagli lasciavano presagire che presto avrebbe avuto qualche buona storia da raccontare.
Elisabetta insegue storie di semi e di grani, alla ricerca delle comunità rurali che stanno recuperando la sapienza delle sementi e il controllo delle coltivazioni. Banche dei semi, progetti di miglioramento genetico partecipativo che recuperino le specificità dei luoghi, reti di contadini che si autoorganizzano per chiudere filiere iperlocali. La classica ricerca che, anche se il tuo scopo è farla innovativa nei supporti e nel linguaggio, non puoi realizzare altrimenti che mettendoci il naso, andando a vedere di persona, parlando con chi si sta sporcando le mani. In Toscana, Sicilia, in Sardegna. In Francia, in Russia, in Iran. In Senegal e in Etiopia. Tanto per cominciare.
Dopo un anno di viaggi, i primi materiali del reportage sono finalmente disponibili. C’è una versione radiofonica andata in onda quest’estate in cinque puntate speciali di Radio3 Scienza. Ma il piatto forte ora è il webdoc che raccoglie la prima infornata di montaggi, interviste e materiali, Seedversity (accessibile anche su Wired Italia). Ulteriori declinazioni internazionali potrebbero arrivare dalla collaborazione con testate che si stanno interessando al progetto, tra cui Al Jazeera, Radio France e RFI.
Seedversity è uno scrigno di spunti per chi si interessa alle intersezioni tra mondi apparentemente distanti come le reti, l’innovazione, la sostenibilità, la storia e il consumo critico. Così io, che mi appassiono più che ai progetti al modo in cui i progetti sono realizzati, ho chiamato Elisabetta Tola e mi sono fatto raccontare quest’esperienza. E questo è quello che mi ha detto (i link li ho aggiunti io).
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Elisabetta, sappiamo che la spinta decisiva per realizzare Seedversity te l’ha data l’EJC con il suo grant. Ma l’idea evidentemente nasce prima. Quando e come?
Durante i miei studi di Agraria mi ero appassionata al lavoro di Nicolay Vavilov, il genetista russo che si è inventato le banche dei semi nei termini moderni. Vavilov è quasi sconosciuto in Italia, pur avendo passato molto tempo qui, ma la sua storia viene raccontata con imbarazzo perfino in Russia, dove lo scienziato è stato riabilitato soltanto negli anni ’50 dopo essere caduto in disgrazia con Stalin.
Vavilov è stato il primo a pensare che se costruisci una banca in cui custodisci la variabilità genetica ti dai la chiave per fare incroci o selezioni per ottenere piante che producano di più o si adattino meglio meglio a climi diversi. Questa banca del seme è oggi un istituto di San Pietroburgo che porta il suo nome. Siamo andati a visitarlo due anni fa ed è lì che abbiamo cominciato ad approfondire il tema e a fare le prime riprese. Paradossalmente proprio questa è una delle parti che dobbiamo ancora montare e pubblicare.
Le storie che fai raccontare ai protagonisti tracciano i confini di questioni di grande complessità, oltre che di grande attualità. Biodiversità, sicurezza alimentare, accesso genetico ai semi, sostenibilità economica del sistema. Tu che idea te ne sei fatta?
Le banche dei semi e le fiere per lo scambio delle sementi dimostrano un’idea interessante, ma anch’esse non sembrano essere la soluzione. Per la legge attuale i contadini che producono prodotti da vendere sul mercato non possono vendere le sementi, cioè non possono riprodursele e vendersele. L’obiettivo di queste iniziative è veder riconosciuta a livello legale la possibilità che almeno per le sementi cosiddette tradizionali da conservazione o da valore culturale, quindi quelle prive di implicazioni commerciali negli ultimi vent’anni, si possa disporre la vendita.
È in corso anche una discussione molto interessante sull’ipotesi di considerare i semi beni comuni o beni collettivi. Definirli bene comune non è del tutto giusto, perché i semi devono essere lavorati, conservati, c’è un lavoro che va riconosciuto, non sono assimilabili all’acqua. Considerarli bene collettivo potrebbe essere un compromesso accettabile, nel senso che riconosci innanzitutto un diritto d’uso a chi li conserva e per contro li esoneri dall’obbligo delle attuali certificazioni.
Molto importante sarà la discussione in ambito europeo della legge sementiera, che fa da riferimento a livello internazionale. Le leggi sullo scambio di sementi di tutti i paesi del Sud sono modellate sulla base di questa. Sullo sfondo resta l’enorme contrapposizione tra la lobby delle aziende che hanno interesse a mantenere le sementi ipercertificate, e quindi tutelate da copyright, e chi dice che almeno una parte di queste risorse devono essere accessibili liberamente. Quello che emerge un po’ da tutte le interviste che abbiamo fatto è che se non mantieni almeno una parte di queste risorse in formato open, la sicurezza alimentare del mondo finisce in mano a quattro aziende private.
Permettimi una parentesi tecnologica: mi incuriosisce la scelta della piattaforma che avete utilizzato per il webdoc. Ha il pregio di rendere l’accesso ai contenuti semplice come sfogliare un Dvd, per contro non sembra valorizzare al meglio le possibilità di interazione e mash-up che una ricerca come la tua potrebbe offrire. E perché non usare semplicemente YouTube?
Piattaforme di questo tipo in genere le sviluppi da zero e su misura, se sei un grande editore e hai le competenze e i fondi necessari. Klynt, che utilizziamo per Seedversity, l’avevo conosciuta l’anno scorso durante un corso di giornalismo investigativo a Londra. In una giornata dedicata al formato del webdoc abbiamo incontrato gli sviluppatori di questa piattaforma francese, che cerca di supportare chi ha la necessità di produrre formati multimediali senza avere le risorse necessarie per produrre soluzioni ad hoc. Ha di buono che permette di integrare con facilità, via iframe, materiali residenti su altre piattaforme. Per contro non è sempre facile comprendere e sfruttare la logica con cui è stata costruita.
L’ipotesi di farne anche un canale YouTube l’abbiamo naturalmente considerata, ma c’è un problema di diritti che in questo caso non è secondario. Il nostro è un lavoro che nasce, per stimolo esplicito della grant EJC, per massimizzare il suo impatto attraverso testate giornalistiche. In questa prima fase dunque lo sviluppo passa soprattutto attraverso la ricerca e il dialogo con media interessati ad approfondire il progetto. Se lo mettiamo su YouTube questo di fatto non ci sarebbe più possibile. Ci arriveremo, credo, ma non subito. Pubblicheremo inoltre i video in alta definizione in un portfolio di Vimeo.
Avete intervistato persone di nazionalità e lingue molto diverse. Una bella sfida tradurre il tutto, immagino…
Le traduzioni naturalmente ci hanno assorbito molto tempo. Non solo per la difficoltà di trovare le collaborazioni necessarie: a volte siamo ricorsi agli accompagnatori sul posto, altre volte ci hanno aiutato le reti di contatti dei nostri colleghi qui in Italia. Avendo scelto di non utilizzare nel webdoc una voce narrante, come invece succede per la versione radiofonica, la difficoltà non era soltanto capire il senso di quello che ci veniva detto in amarico, in farsi o in russo, ma anche far coincidere in modo esatto i sottotitoli con quello che l’intervistato sta dicendo.
Come avete identificato le comunità che avete intervistato?
All’inizio sono stati fondamentali gli agronomi che lavorano in questo settore e che già conoscevamo. Poi è stato un grande lavoro di rete. Negli ultimi anni sono nate molte reti contadine. In Italia per esempio c’è Semi Rurali, un’associazione di secondo livello di associazioni di contadini che lavorano a favore dell’agro-biodiversità. In Francia c’è Réseau Semences Paysannes. Grazie a loro siamo risaliti di nodo in nodo fino ad altre iniziative in altre parti del mondo.
Queste reti fanno rete anche nel senso della consapevolezza rispetto alle opportunità offerte da internet?
Usano senz’altro molto la rete per accordarsi, ma anche per cominciare a costruire piattaforme operative. Però è un mondo molto ancora poco digitalizzato, che avverte la necessità di costruire strumenti di uso pratico. Ci sono naturalmente differenze sostanziali tra il modo di usare la rete italiano o francese rispetto a quello africano. I contadini della comunità rurale etiope ci raccontavano che loro vanno su internet per controllare le quotazioni di mercato del grano che vendono, cosa che invece i contadini italiani non fanno. Credo dipenda dal fatto che in Italia chi aderisce a questo modello di agricoltura molto biodiversa e molto localizzata compone una comunità molto mista, dove convivono la componente nostalgica di un passato rurale e invece giovani o agricoltori di ritorno che vedono nella rete un’opportunità di sviluppo e di chiusura di filiera. Alcuni di quelli che abbiamo intervistato vendono online, un mercato non solo di prossimità attraverso il quale raggiungono famiglie e ristoranti.
In Africa la rete è vista come un’enorme possibilità, perché sono molto più isolati. Usano tantissimo il telefono e la rete attraverso il telefono. Ovviamente non stiamo parlando di smartphone e si tratta di comunicazioni prevalentemente testuali, al massimo email o sistemi di chat tipo Viber. C’è il tentativo di sviluppare applicazioni semplici che sfruttino le caratteristiche di base del cellulare per far circolare un’informazione sulle sementi che oggi non esiste. Non che in Italia esista molta più informazione, però a questo supplisce di solito un enorme ambito informale molto legato all’incontro e allo scambio diretto tra contadini.
Parlando di rete, tu che sei abituata alla connessione ovunque, come ti sei trovata in questi tuoi viaggi?
Guarda, abbiamo sempre avuto un accesso WiFi. Anche alla fiera dei semi che abbiamo visitato a Djimini, una delle zone più povere del Senegal, anche lì avevamo la rete. Certo un po’ altalenante, con il router che veniva raffreddato da un ventilatore, ma funzionava. Mi vien da dire che forse è meno informatizzata la comunità contadina della campagna veneta. L’Iran poi è un paese ipertecnologico, contemporaneo rispetto ai nostri stessi caratteri di contemporaneità. C’è una censura seria, che impedisce l’accesso ai social network, per contro trovi la rete aperta quasi ovunque e c’è grande consapevolezza rispetto alle contromisure possibili per aggirare il sistema.
Rispetto alle comunità rurali e ai semi, che cosa ti ha lasciato l’Iran?
Il progetto più avanzato tra quelli che abbiamo esaminato finora l’abbiamo trovato proprio lì. Il governo è molto paternalista, la gestione dell’agricoltura è quasi pubblica, nazionalizzata. Le sementi, le farine, i fertilizzanti arrivano dal governo. Per contro le prime esperienze di miglioramento genetico partecipativo sono partite proprio tra l’Iran e la Siria. Un po’ perché sono zone molto ricche di risorse genetiche, e del resto sono le culle del grano. Ma poi anche perché è proprio nei paesi dove si vivono situazioni di isolamento che i contadini maturano l’idea di non poter dipendere del tutto dal governo o da una singola azienda che compra i loro prodotti.
Ho percepito nettamente questa consapevolezza superiore. Ma è anche la prima volta che vivo la sensazione di trovarmi di fronte a una popolazione che ha una cultura molto più antica della nostra. Qui parli con gente che settemila anni fa era già ben insediata e aveva fondato le prime città. I contadini con cui abbiamo parlato noi avevano una visione geopolitica molto forte: sono entrati tra i primi nei programmi per la sicurezza alimentare delle Nazioni Unite, le farmer field school, che con metodi partecipativi facevano ragionare sulle dinamiche a livello territoriale. Lì hanno capito che dovevano essere indipendenti per la gestione dei semi e si sono messi a fare esperimenti. Non dico che siano tutti così, ma quelli che abbiamo incontrato noi erano davvero molto avanti.
Ma sono stati sempre tutti così contenti di parlare con voi o avete incontrato anche resistenze?
Assolutamente sì, tutti contenti. Semmai abbiamo avuto il problema contrario, perché alla fine avevamo talmente tante ore di girato che è stato drammatico selezionare. Per fortuna il montaggio l’hanno curato due colleghe di Formica Blu che non hanno fatto il viaggio con noi, quindi avevano la mente fresca nell’aiutarci a scegliere i brani più utili. Tra l’altro, senza voce narrante dovevamo curare particolarmente bene la successione logica degli interventi. Abbiamo fatto una cinquantina di interviste, le rilasceremo tutte un po’ alla volta. C’è talmente tanto materiale che avremmo potuto fare una serie televisiva a puntate. Ed è stato istruttivo anche dal punto di vista del metodo di lavoro, per il futuro.
Dopo la Russia e gli altri capitoli mancanti, che cosa hai in mente per Seedversity?
Vorremmo trovare finanziamenti per sviluppare altri pezzi di racconto sul tema. Sarebbe interessante trovare le risorse per raccontare quello che succede nelle regioni italiane. Per esempio ci hanno contattato dalle Marche, la prima regione che abbia una legge a tutela della biodiversità agroalimentare. Mi piacerebbe raccontare altri progetti di miglioramento genetico in corso in altri paesi dell’Africa e del Medio Oriente. In Tunisia il governo sta ragionando su politiche di autodeterminazione della produzione alimentare. I maggiori progetti di miglioramento genetico partecipativo, che poi è il cuore tecnico-scientifico del nostro racconto, si trovano in Siria. Purtroppo oggi in Siria la situazione è molto complessa, leggevo proprio recentemente che hanno dovuto mettere in sicurezza la banca dei semi. E poi c’è il filone d’inchiesta, che per ora non abbiamo ancora toccato, sulle logiche del mercato sementiero e sulla biopirateria.
Qual è finora la storia che ti ha colpito o sorpreso di più?
La storia che mi ha fatto più pensare è stata quella della comunità rurale di Caffee Doonsa in Etiopia. Un gruppo di contadini che dopo l’ennesima carestia, dopo l’ennesimo prestito di semi per ricominciare da capo l’anno dopo, in un paese che più o meno vive una carestia ogni tre anni, si sono autoorganizzati per creare una scorta. Sembra la soluzione più banale, in realtà hanno fatto un sorprendente lavoro organizzativo, molto strutturato e autonomo.
Mi è piaciuto perché non è la classica situazione in cui una Ong arriva e fa una proposta. È stato un progetto che ha vissuto il processo contrario, con una comunità che è stata capace di dare una risposta a una propria esigenza. Mi è sembrata una storia molto dignitosa di consapevolezza, mi ha fatto ripensare al perché a un certo punto l’uomo ha pensato di coltivare. Se coltivi e possiedi i semi, hai in mano la tua sicurezza alimentare.
Se devo dirti invece la frase che mi è piaciuta di più, è quella di Bertrand, il contadino francese che abbiamo messo anche nel trailer. Lui dice: i semi sono ciò che ha portato l’uomo da cacciatore-raccoglitore a coltivatore, il fondamento dell’umanità. Chi possiede le sementi ha in mano il presente, il passato e il futuro dell’umanità.