Elephant, di Gus Van Sant. Palma d’oro e premio alla regia al Festival di Cannes 2003.

Prima di tutto mettiamoci d’accordo sul titolo. La Repubblica: «Si riferisce ai massacri compiuti dai pachidermi impazziti». L’Unità: «Prende il titolo, non a caso, dal simbolo del partito repubblicano». Corriere della Sera: «Van Sant ha preso il suo titolo dall’apologo buddista dei ciechi che cercano di immaginare un elefante, riuscendo soltanto a descrivere la parte che ciascuno può toccare». BBC: «Van Sant took both the title and the multi-perspective style of Elephant from British director Alan Clarke’s 1989 BBC programme about violence in Northern Ireland. Van Sant originally thought that Clarke’s title referred to the old Buddhist parable in which several blind men each examine a different part of an elephant and think that they understand the whole, but it turns out that Clarke was actually referring to the proverbial elephant in the room that everyone sees but no one mentions».

Poi il film. Non sarebbe neanche male se non arrivasse buon ultimo a colpire l’immaginario collettivo con immagini di gioventù perduta e sparatorie nelle scuole. Pescando a caso i primi esempi che mi passano nella testa: Bowling for Columbine, The Basketball Diaries, l’intera collezione di Larry Clark (da Kids a Ken Park), per finire in musica con la sempreverde Jeremy (RA, WM) dei Peal Jam.

Note sparse. Lunghi piani sequenza pedinano in continuazione i protagonisti: bello, anche se ripetitivo. Piccoli fatti visti da più angolazioni: bello, ma non molto originale e in questo caso fin troppo abusato. I personaggi hanno lo stesso nome dei rispettivi attori: tutti bravi, per non essere professionisti. La cornucopia di luoghi comuni nelle ambientazioni, nelle situazioni, nelle musiche e nella caratterizzazione dei personaggi: talmente marcata da sembrare per lo meno voluta. Le occasionali immagini al rallentatore: terribili, soprattutto in un film d’autore. L’uso di suoni e rumori come elemento narrativo di primo piano: questo sì, mi è piaciuto. Il gioco a disorientare lo spettatore con le lunghe passeggiate dei protagonisti, che cambiano direzione ogni volta che chi guarda crede di aver intuito la possibile meta: bello, ma calcato ai limiti della noia.

In definitiva. Non mi ha convinto molto. Non ho capito tutto l’entusiasmo generato a Cannes, dove ha vinto quasi tutto. Mi è sembrata sopravvalutata la reinterpretazione di cose già viste, nonostante il tocco di classe di Gus Van Sant, regista che in genere apprezzo molto. Non mi ha preso alla gola dopo dieci minuti, come promettevano le locandine. E, a costo di sembrare cinico, non mi ha nemmeno sconvolto più di tanto.