Durante Web 2.0ltre, in particolare nel corso della prima giornata, mi è tornata in mente la storiella dei ciechi che vanno allo zoo a scoprire l’elefante. Dovendo usare le mani per scoprire il grande animale ne traggono ciascuno un’analogia differente: l’elefante è come un serpente (chi toccava la proboscide), l’elefante è come un palazzo (chi toccava il busto), l’elefante è come un albero (chi toccava la gamba). E via dicendo. Così per il Web 2.0: ognuno l’ha analizzato da una prospettiva differente, in una gamma di sguardi che andava dall’esaltazione alla negazione di qualsivoglia motivo di novità. Mi sembra una buona cosa per un convegno, e per un convegno a pagamento destinato a delle aziende in particolare.

Io ho vissuto le due giornate da un punto di vista privilegiato, e lo dico a mo’ di disclaimer rispetto a tutto quello che sto per dire. Ma qui parlo da spettatore, soprattutto. L’ho trovato un incontro molto stimolante, forse perché alle persone e ai concetti consueti si sono aggiunti stimoli e persone che non conoscevo. Ho la piacevole sensazione di aver rimesso in moto il cervello su alcuni temi che da troppo tempo doòormai per consolidati. Qualche appunto sparso.

Pecore e supereroi. Ho amato in particolare l’intervento di Bernard Cova. È una di quelle persone in grado di catturare il tuo sguardo sulle cose e spostarlo per mezzora qualche metro più in avanti. Difficile rendere giustizia alla sua carrellata di suggestioni a cavallo tra sociologia, antropologia, economia e tecnologia, ma il concetto cardine è che le persone stanno cambiando, stanno rispolverando la necessità di creare quotidianamente e nel tempo stesso di appartenere. Non più gregge di pecore, ma supereroi che agiscono insieme. La comunità, l’essere insieme, la we-ness è parte integrante dell’identità. Il marketing si capovolge, i consumatori diventano produttori di senso, le aziende devono reinventarsi (ma con buon senso). Tutto questo avviene – e su questo passaggio sto rimuginando ancora – non come conseguenza del Web 2.0, perché al contrario è la tecnologia che si sta adeguando al capovolgimento della società. E se il Web 1.0 non ha funzionato, aggiunge Cova, è anche perché l’evoluzione della società era già avviata.

Il Web 2.0 non esiste. Delle due l’una. O molte aziende convertitesi tra le fanfare al Web 2.0 non hanno ancora capito nulla del Web 2.0. Oppure stanno provando a cavalcare il fenomeno per ristabilire al più presto gli stessi recinti in cui eccellevano nel Web 1.0. Sentire Alice, Yahoo! Italia e Dada (ma anche altre aziende minori qua e là in altri momenti del convegno) parlare delle loro strategie, di revenue, di fatturati, di cpm, di cpa, di acquisizioni, di utenti che vogliono solo divertirsi e diverse altre amenità mi ha fatto sentire come un extraterrestre misantropo paracadutato per un errore di rotta nel bel mezzo del SuperBowl. In alternativa: me stesso alle conferenze stampa milanesi delle dot-com sei o sette anni fa. Ora, è evidente: loro stanno facendo milionate di euro, e nella scala di valori che va per la maggiore questo significa rispetto estremo e deferenza. Ma non credo ci sia stata una singola frase del panel di chiusura della prima giornata (Show me the money: ritorno degli investimenti e modelli di revenue del Web 2.0 nel mercato italiano e globale) che io, in qualche modo un addetto ai lavori, mi sia sentito di condividere. Anzi sì, una sola, quella che ha fatto più scalpore, ma in fondo anche la più onesta: il Web 2.0 non esiste, è il solito web partecipativo di cui parliamo da oltre un decennio (provocazione attribuibile, nello specifico, a Giancarlo Vergori di Alice). Ecco, nel loro caso – e benché mi faccia specie mettere nel mucchio anche una società che annovera servizi come Flickr o del.icio.us – forse è davvero così.

Basta poco. Una delle conversazioni più piacevoli è stata quella dedicata al corporate blogging. Ne conservo una conclusione a modo suo illuminante. E divertente, dal mio punto di vista. Le aziende restano sorprese che qualcuno voglia davvero parlare con loro. Le persone restano sorprese che un’azienda voglia davvero parlare con loro. Passata la paura si raccontano casi di successo. Non è così difficile, evidentemente. (Alessio Jacona, che moderava il panel, approfondisce il concetto)

L’email è morta. Se sul Web 2.0 si sono scontrate visioni diverse, dai relatori (quelli internazionali in particolare – e Lee Bryant il più incisivo in proposito) è emerso un dato tutto sommato condiviso: la posta elettronica ha fatto il suo tempo. Internet è un flusso, l’email è uno stagno che fa perdere troppo tempo. Bye bye email. Io non sono pronto, lo dico subito. Uso pesantemente le applicazioni più mature di Internet, buona parte dei contenuti di cui usufruisco passa per un feed Rss, converso e attingo alla conversazione. Ma no, non toccatemi ancora l’email. Sì, c’è lo spam. Sì, è una comunicazione più statica e faticosa. Ok, non è molto scalabile. Vero, in contesti collaborativi professionali ambienti integrati blog+wiki+aggregatori+feed funzionano meglio. Ma io considero ancora l’email come una componente fondamentale delle mie attività online, parte della mia identità digitale. Mi sono sentito spesso in anticipo sui tempi, negli ultimi giorni. Ma rispetto a questa prospettiva no, ho risvegliato quel poco di reazionario che c’è in me.

Pubblicità 1.1. Enrico Gasperini è stato bravo e coinvolgente. Ma da presidente di Audiweb ha fatto il suo mestiere, ovvero ha parlato della pubblicità degli investitori tradizionali che utilizzano strategie tradizionali all’interno di canali poco meno che tradizionali. Dunque dentro i banner, il marketing virale, il passaparola artificiale. Zooppa, tutt’al più, è la terra di confine. ReviewMe, Pay-per-post, Federated Media – per non parlare dell’unico vero avamposto di pubblicità 2.0, ovvero quel The Deck a cui nel mio convegno ideale dedicherei un’intera mattinata di studio – nemmeno di striscio. Molto si è detto di cost per click/impression/action, durante il convegno, ma non ho sentito un solo relatore citare anche solo per caso il cost-per-influence. Come se non bastasse, a un certo punto Gasperini ha rimarcato la difficoltà di raggiungere con la pubblicità online le fasce più giovani, perché i loro modelli d’uso di Internet sono talmente estremi, rapidi e peculiari da lambire appena le vie battute dai grandi investitori. È un bel problema! Questi qui come li andiamo a colpire?, si è lasciato candidamente sfuggire Gasperini. E io, che avevo un microfono acceso davanti alla bocca durante la sua pausa ad effetto, mi sono morso la lingua giusto un attimo prima di notare ad alta voce che non è mica obbligatorio colpirli, che non è certo un servizio pubblico e che forse potremmo anche lasciarli in pace, poracci. Ma è evidente che io ho un problema consolidato con la volgarità dei termini di marketing (colpisci tua sorella, se t’aggrada) e con le pretese universali dei pubblicitari rispetto alla necessità di raggiungere sempre e comunque tutti, notte e giorno, in qualunque contesto, a qualunque costo.

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Milano sullo sfondo. Io e Milano abbiamo un rapporto strano. Amore e odio. Il secondo vince regolarmente alla volata. Arrivare a Milano mi mette sempre di uno strano umore, probabilmente dovuto al rapido processo di assuefazione alla perenne incazzatura e fretta di cui risente qualunque atomo a quella latitudine. Ogni volta mi porto a casa una manciata di aneddoti. Il migliore, stavolta, nei bagni della hall del Marriott Hotel (qualche nota in proposito anche da Marco Formento), dove entro seguito da un businessman in completo grigio e faccia scura, con auricolare bluetooth all’orecchio e tanta, tanta fretta. Entriamo in due toilette contigue, separati da un pannello di compensato. Facciamo quello che dobbiamo fare, ciascuno per conto proprio. Dopo venti secondi sento il mio vicino dire a voce alta e scandendo bene le sillabe, con accento meccanico: «Te-re-sa-Me-noz-zi». Pausa, sospensione nell’aria. «Ah ciao Teresa, sono Adalberto, volevo dirti che per quella riunione poi ho pensato che» – sciaquone nella terza toilette, che non turba minimamente il mio vicino – «forse è il caso di anticiparla a domattina, perché» – ventola ad alta potenza per l’asciugatura delle mani, scatarrata di un altro avventore nella zona lavabi – «è molto importante che incontriamo quelle persone al più presto e facciamo» – tiro lo sciacquone io, sogghignando – «il punto della situazione. Puoi» – sciacquone suo – «pensarci tu e richiamarmi» – ci laviamo le mani uno accanto all’altro, serissimi e apparentemente incuranti l’uno dell’altro – «appena hai notizie? … Bene… Perfetto… Grazie… Ciao, ciao». Usciamo dal bagno, si schianta la poesia.