Il giornalismo non è un prodotto, è un processo (lo ha detto John Byrne, direttore dell’edizione online di Business Week)
Da studiare l’interazione coi lettori promossa da Business Week: ascolto strutturato, community editor, collaborazione attiva a più livelli da parte dei lettori, i lettori “con la faccia”.
Il “pubblico” sta subendo una modificazione genetica. Un po’ come Spiderman: ci ha morsi il ragno della rete e ora stiamo sviluppando superpoteri. (quel fumettaro di Antonio Sofi)
Credo che sul problema del filtro sia necessario essere molto drastici e molto chiari, senza tentennamenti. Se non si capisce il filtro diffuso e spontaneo non si capisce internet. Non è possibile sentire ancora nel 2009 giornalisti, dunque persone immerse nella comunicazione, che pongono il problema dell’overload informativo, soprattutto se sono giovani giornalisti. Non è possibile negoziare, nelle risposte, concedendo qualcosa per cortesia o prudenza alla presunta enormità del problema. Il filtro è ciascuno di noi: la responsabilità (ma anche l’opportunità) di mediare spetta a ciascuno di noi. Punto.
Continuo ad avere la sensazione che il giornalista, anche quando parla di apertura al pubblico, rinegoziazione del processo, necessità di scendere dal piedistallo, continui comunque a considerarsi protetto da un recinto invalicabile. È come se dicesse: ok, siete entrati in redazione, ma il mio ufficio ve lo scordate. Io non credo basterà. Non credo basterà chiamare “cittadini” i lettori, se poi non ci si considera cittadini a propria volta. Ritengo restino ampi spazi per l’esercizio professionale del processo giornalistico, ma non credo troveremo nessun nuovo modello di informazione finché l’informazione non sarà profondamente peer to peer.
Il confronto tra le industrie editoriali e giornalistiche di mezzo mondo e quella italiana si fa sempre più impietoso. Mi sto interrogando sui motivi, sto chiedendo in giro a colleghi che hanno visioni di sistema più ampie delle mie. Le prime risposte dicono che il giornalista italiano non studia più, una volta arrivato al suo posto. Persino le scuole di formazione creano professionisti fermi al secolo scorso. Non si investe in ricerca e sviluppo, nel giornalismo italiano. Dirigenti ed editori sono anche meno visionari. Si fa così perché in fondo è l’unica cosa che sappiamo fare. Il polso con cui un direttore americano impone nuovi processi e nuovi strumenti qui è sconosciuto. Me lo spiego in tempi di vacche grasse, ma oggi che sta chiaramente venendo giù l’intonaco quale alternativa abbiamo? Si perdono soldi per l’incapacità di innovare: perdite per perdite, perché non investire anche solo una piccola parte di quei soldi in laboratori creativi ed esperimenti digitali?
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