Ho seguito con molti motivi di interesse il processo che il Tribunale di Pordenone ha intentato contro la webtv pordenonese Pnbox in seguito alla denuncia dell’Ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia. Primo: a sollevare il caso era l’organismo di categoria a cui sono iscritto e che mi rappresenta in ambito professionale. Secondo: seguo e apprezzo dalla nascita le attività di Pnbox. Terzo: ho stima di Francesco Vanin, fondatore della società e unico imputato al processo (con cui, lo dico qui per trasparenza, mi capita anche occasionalmente di lavorare). Bene, qualche giorno fa la vicenda si è conclusa con l’assoluzione di Vanin: è andata, insomma, com’era logico che andasse, soprattutto in considerazione del fatto che il dibattimento si è andato restringendo fin dalla prima udienza non tanto sull’attività complessiva della webtv (la posizione dei redattori, del resto, era già stata archiviata da tempo), quanto semmai su quella specifica del suo amministratore, talmente al di sopra dei sospetti di abuso di professione che perfino il pubblico ministero ha finito col chiederne l’assoluzione.
Non ho mai nascosto le perplessità per la scelta dei miei rappresentanti regionali di risolvere una questione pur legittima e fondamentale (l’inquadramento delle attività di informazione in rete) nel modo più pavido e prepotente (chiedendo a un giudice di decidere sulla pelle del malcapitato di turno). In tutto il mondo, intere filiere editoriali, dall’editore all’ultimo dei collaboratori, si stanno confrontando sui cambiamenti epocali in corso nel mondo della comunicazione e del giornalismo, condividendo preoccupazioni, idee e sperimentazioni. Qui, nella nazione che già vanta con la corporazione professionale dei giornalisti un’anomalia più unica che rara, si passa direttamente alle denunce, senza nemmeno il dibattito. Tale era l’urgenza di venire a capo del problema che nessun rappresentante dell’Ordine ha assistito alla lettura della sentenza, per dire. Chiusa parentesi.
E ora? Non abbiamo concluso nulla, secondo me. C’è poco da festeggiare o di cui rammaricarsi. La situazione è esattamente com’era prima, non è stato sancito alcun nuovo diritto, tutte le criticità restano. Abbiamo semplicemente evitato che si generasse un grave precedente giuridico, com’era stata per esempio nel 2008 la condanna dello storico Carlo Ruta per il reato di stampa clandestina, perché il suo blog non era una testata registrata (caso risolto soltanto pochi mesi fa, dopo quattro anni di ricorsi, a dimostrazione di come certe cantonate facciano perdere tempo prezioso, mentre il resto del mondo corre). La legislazione di riferimento è ancora nel pieno del suo vigore, nonostante abbia visto la luce nel 1948 (la legge sulla stampa) e nel 1963 (la legge sull’ordinamento giornalistico) e i suoi limiti siano sempre più evidenti. È un po’ come se ci ostinassimo a regolare il traffico di oggi con il codice della strada di fine ‘800: a un certo punto le analogie con le carrozze e i velocipedi non funzionano più, semplicemente. Stabilire che quella di Pnbox non sia attività giornalistica a me non soddisfa affatto come conclusione, perché taglia con l’accetta un confine già oggi labile, ma che sarà sempre più difficile rilevare in futuro.
Da giovane giornalista ho molto creduto nei benefici di una professione definita con rigore, perché il sovrappiù di norme poteva garantire un importante margine di autoregolamentazione nella categoria. A quest’ora, però, avremmo dovuto avere come minimo il giornalismo migliore del mondo, mentre il fallimento dell’ambizioso progetto – generoso nelle intenzioni di chi lo ha istituito e difeso finora – è sotto i nostri occhi. L’Ordine oggi è quasi più un freno passivo per gli innovatori che un respingente per professionisti senza scrupoli. I giornalisti rischiano di diventare i peggiori nemici di se stessi, perché mentre difendono le carrozze e i velocipedi vengono travolti dal traffico molesto del 2000 e mancano le ultime scadenze utili per recitare un ruolo attivo e consapevole nella ricerca urgente di una mobilità dolce e sostenibile.
Così oggi ho anch’io sempre meno dubbi: dovremmo fare un salto in avanti. E lo dobbiamo fare – in questo mi ritrovo nelle posizioni di colleghi tutto fuorché avventati, come Mario Tedeschini Lalli – superando questa legislazione e non tentando di adeguarla o modificarla, col rischio di renderla magari ancor più insidiosa a forza di compromessi. La Costituzione già regola, concedendolo a ogni cittadino, il diritto di espressione, così come nei fatti è sempre più spesso il mercato a definire chi effettivamente eserciti le funzioni del giornalista e chi no. Nell’epoca in cui chiunque abbia qualcosa da dire può accedere in modo semplice ed economico a una platea globale, le eccezioni cominciano a essere talmente numerose da rendere impossibile quell’unità di intenti e di pratiche che aveva favorito la nascita della corporazione. In questo calderone anche soltanto far rispettare la legge diventa difficile, mentre la certificazione di Stato che un tempo dava certezza oggi per paradosso tende a ottenere il risultato inverso. Io sono ancora convinto di quello che scrivevo nel 2010: è il momento migliore per essere giornalisti. Ma, appunto, il momento è adesso. Non il 1948.
Che cosa ce ne facciamo ora di tutto questo progresso? – Sergio Maistrello
Mag 21, 2024 -
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