Vi diranno che è un romanzo di formazione, che parla di adolescenza, di amicizia, di scoperte e di amore. Vi diranno che racconta del modo in cui un giovane ebreo benestante e non strettamente osservante vede il mondo. Vi diranno che è autobiografico. Vi diranno che ripercorre l’età in cui New York per un artista era una meta, un luogo da raggiungere per realizzarsi. Vi diranno che questo è uno dei migliori romanzi canadesi di sempre.
Invece Il gioco preferito di Leonard Cohen è una canzone, una canzone lunga 286 pagine. Ed è una bella canzone, se si supera il disorientamento delle prime pagine (che, rilette con la consapevolezza di poi, sono anche le più intense e stupefacenti). Cohen, artista poliedrico e raffinato, lo ha scritto prima di diventare noto come uno dei più sensibili musicisti contemporanei. Introvabile, il testo è stato ristampato con una nuova traduzione nel 2002 da Fazi.
Il gioco preferito ha della canzone la forza espressiva ed evocativa, la capacità di emozionare con un solo inciso, il felice equilibrio tra detto e sottointeso che rende complice l’immaginazione di chi legge. Nella prima parte, in cui i collegamenti tra gli eventi hanno ancora un peso secondario, il libro è un piacevole susseguirsi di impressioni, immagini e intuizioni dominate da stupore e purezza. Poi il racconto si fa più maturo, così come l’età del protagonista, ma non perde mai la meraviglia e il candore. Frammenti di vita, come lo sono molte canzoni del Cohen cantautore: li avete sentiti anche voi gli accordi di chitarra in sottofondo?
Il gioco preferito è Due di due se l’avesse scritto Fabrizio De André.
(Se poi volete leggere un po’ di recensioni serie – perché questo libro ha fatto poco rumore ma ha affascinato molto – il vivace sito di Fazi ne raccoglie un bel po’).