Una delle cose più belle che mi ha portato il libro è la serie di contatti umani che ne sono conseguiti. Sconosciuti che ti scrivono magari solo per dire che hanno apprezzato il tuo lavoro o che una certa frase che hai buttato lì non è passata inosservata: trattandosi di un banale manualetto che parla di cianfrusaglie tecniche, e non essendo affatto i lettori tenuti a farlo, la gratuità del loro gesto per me conta davvero molto, spesso più di una recensione.
Poi ti succedono anche cose divertenti, piccole scommesse inaspettate come quella che mi ha fatto conoscere Il Bar sotto il Faggio. Nei giorni in cui è uscito Come si fa un blog, Mauro di Polenta&Cammelli (ovvero Polenta; Cammelli è Marco) mi ha scritto proponendomi uno scambio che, in soldoni, diceva così: tu spedisci a me il tuo libro e io in cambio mando a te il nostro romanzo autoprodotto. Non conoscendo il fascino che riscuote in me il baratto (non è bella l’idea di persone che si procurano ciò di cui hanno bisogno scambiandosi i frutti del proprio lavoro?), Mauro si sentì in dovere di aggiungere che non me l’avrebbe proposto affatto se non avesse notato proprio in quei giorni la citazione di un libro di Stephen King sul mio blog e non gli fosse tornato in mente il chiodo su cui lo scrittore da giovane usava impilare le lettere di rifiuto degli editori (ne parla in On writing). «Nel mio c’è posto anche per le e-mail», concludeva, conquistandomi definitivamente.
Lo scambio è avvenuto, il Bar sotto il faggio è arrivato e me lo sono letto in… ok, vorrei dire in un soffio, come meriterebbe, ma per me non è proprio periodo da letture veloci. Ad ogni modo, me lo sono goduto dalla prima all’ultima riga. Mauro e Marco forse non lo sanno nemmeno, ma ne ho parlato con entusiasmo perfino alla radio svizzera, qualche settimana fa, durante un’intervista in cui uno dei conduttori si chiedeva che cosa mai leggesse un blogger. Servita su un piatto d’argento: un libro delizioso che forse mai avrei incontrato sulla mia strada se non mi fossi ritrovato nel mondo dei blog.
Delizioso il libro lo è davvero. Magari qualcuno lo ha già presente, perché i racconti di Polenta&Cammelli sono pubblicati a puntate sul loro blog (questo è il primo a vedere una rilegatura). Io non lo conoscevo e mi ha ricordato l’entusiasmo con cui quindici anni fa mi sono tuffato in Bar Sport di Stefano Benni: non li accomuna solo l’esercizio pubblico nel titolo, ma anche un certo gusto di raccontare l’umanità di un microcosmo e le storie universali che lo attraversano.
Per essere un libro fatto in casa – e con questo intendo dire solo: non sottoposto all’editing profondo con cui una casa editrice è solita trasformare un manoscritto fosse anche meno che decente e pieno di ingenuità in un potenziale bestseller – Il Bar sotto il faggio ha molte virtù e pochissimi vizi. In primo luogo è scritto molto bene. Ho amato molto l’ironia (a tratti è risata pura!), lo stile ricco, l’occhio sensibile a cogliere i particolari, la galleria di personaggi indimenticabili, l’equilibrio nei dialoghi, l’uso creativo del dialetto messo in bocca nel momento giusto alla persona giusta. Per contro – se recensione dev’essere, che lo sia fino in fondo – la storia è forse un po’ sbilanciata a danno dell’economia complessiva del racconto e del ritmo a tratti irregolare: sono gli stessi autori, del resto, a dichiarare nella prefazione che si tratta del frutto di un viaggio a puntate partito senza sapere dove sarebbe poi arrivato.
Per ignoranza (che vedrò di recuperare in fretta), non conosco bene la storia di Polenta&Cammelli. Di certo mi sembrano due autori che hanno parecchio da dire e sono stupito che nessuno abbia ancora dato loro un megafono.