Tanto di cappello alla direzione del Partito Democratico per aver scelto di trasmettere i suoi lavori in diretta (su YouDem, su RedTv e a cascata sui maggiori giornali online). Credo anch’io che, nel suo piccolo, questo esperimento abbia segnato un importante precedente nella storia della politica italiana. Non è tanto la diretta: sono l’apertura, la trasparenza dei lavori, i mille canali spontanei che si generano online, sui quali il partito non ha più il minimo controllo. Fin qui riguardo al processo e alla confezione.

Riguardo ai contenuti devo dire invece che la sensazione, dopo aver seguito in sottofondo diverse ore di interventi, non è molto confortante. Al contrario. Non la faccio lunga, perché non credo di avere titolo e competenze per interpretare le sottigliezze di una discussione che – sebbene resa pubblica e trasparente – resta pur sempre interna al partito, dunque probabilmente confinata entro un recinto di codici e riti per addetti. Resto però allibito dal pressapochismo che ha contraddistinto la gestione dei lavori, dall’incapacità di tenere fede anche solo all’unica regola espressamente condivisa (sette minuti a testa), dalla quantità di interventi incapaci di accendere il benché minimo guizzo o quanto meno di dimostrare che chi parlava aveva effettivamente capito dove si trovava e perché.

Ho sentito ripetere tante volte che tutto sommato gli altri sono peggio, dunque le cose non devono andare poi così male. Per essere a pochi giorni da una batosta elettorale, nel mezzo di un mezzo scandalo giudiziario e nel pieno di una disaffezione che non promette molto di buono alle europee dell’anno prossimo, c’è da complimentarsi per la serenità ostentata dai leader. Alla fine, m’è sembrato soprattutto un gioco a far sfogare ansie e intemperanze degli allarmisti o di quanti necessitassero della dose omeopatica di palcoscenico, per poi ricondurre anche i più esagitati a una rasserenante conclusione zen. Su una trentina abbondante di interventi che ho ascoltato dal vivo, quelli che per idee, toni o ragionamenti m’hanno dato l’impressione di vivere nel mio stesso mondo e nello stesso anno si contano sulla dita di una mano: Reichlin, Bersani, Chiamparino, a modo suo D’Alema.

Alla fine mi resta soprattutto l’immagine della frettolosa votazione del documento generico, consolatorio e rassicurante proposto dalla segreteria del partito. E l’altrettanto frettolosa e nemmeno troppo imbarazzata bocciatura dell’unico documento, messo a forza all’ordine del giorno dai suoi promotori, che scriveva nero su bianco le poche parole che molta gente fuori da quella stanza si aspettava di sentir dire nel corso della giornata. Un mezzo suicidio politico, temo.