Beppe Severgnini sul Corriere della Sera di giovedì 20 gennaio:

Invece di portare la lingua quotidiana sui monumenti, abbiamo accettato che la lingua dei monumenti conquistasse la vita quotidiana. In pubblico, la gente dice lustri e non cinque anni, volto e non faccia, ventre e non pancia. Presenta omaggi, e non fa regali. Molti esordiscono con Chiarissimo scrivendo a professori universitari specialisti in manovre oscure, e tutti chiudono le lettere con Voglia gradire i più distinti saluti. Chi li distingue, quei saluti? Nessuno. Ma il mittente si sente tranquillo.
Ricordo Silvio Berlusconi, al tempo degli ostaggi in Iraq: il presidente del Consiglio non diceva “Continuiamo a parlare…”, ma “Abbiamo un’interlocuzione continuativa…”. Il movente psicologico è lo stesso che lo spinge a usare “Mi consenta…”: un’insicurezza verbale di fondo, che attraversa la società italiana come una corrente (da Palazzo Chigi alle case popolari). Il linguaggio come polizza di assicurazione. Anzi: come vestito buono da indossare per le fotografie, e poi rimettere nell’armadio.
Non è solo la lingua ufficiale a comportarsi così. I nostri discorsi sono disseminati di segnali di cautela e d’incertezza. “In Veneto – mi diceva un veneto – molti iniziano le frasi dicendo Con rispetto parlando… Quando chiedono nome e cognome, a Venezia e a Padova c’è chi risponde: “Mi saria Tonon Giovanni..”. Io sarei Giovanni Tonon: ma potrei essere anche qualcun altro, se risultasse necessario”. Lo stesso, universale, italianissimo “ciao” deriva da schiao (pronuciato sciao). In dialetto veneto: schiavo, servo suo. Un esordio umile, poi si vedrà.