Ieri ho spostato libri tutto il giorno per mettere a punto una bibliografia. Improvvisamente ho messo a fuoco una curiosità che continuava a sfuggirmi davanti agli occhi: i libri americani non hanno (quasi) mai il marchio dell’editore sulla copertina. Il logo compare discreto sulla costa e in quarta di copertina, ma la prima di copertina è tutta concentrata sulla presentazione del libro e del suo autore. Pulita, essenziale e in un certo senso unica. Abituato alle gabbie italiane, dove il formato e il design caratterizzano a prima vista non solo l’editore, ma spesso addirittura la collana, ci ho rimuginato un po’ su. Pensa ai libri Einaudi, per dirne una, raffinatissimi nella loro essenzialità, in quella peculiare predominanza di bianco: è chiaro al primo sguardo che quello è prima di tutto un libro Einaudi; solo dopo ti concentri sulla sua unicità, sul suo titolo, sul suo autore.
Non è questione di meglio o peggio: sono sensibilità diverse, storie diverse, mercati diversi. Però non mi dispiace quello che leggo tra le righe di questa convenzione tutta americana: la interpreto come una forma di rispetto estremo per il libro, per l’unicità della sua storia, per un processo di produzione e commercializzazione che non dovrebbe conoscere routine e che andrebbe adattato titolo per titolo. E mi sembra interessante che un mercato che istintivamente percepisco come più industriale e codificato del nostro riesca a comunicare al contrario questo sottile non-so-che di artigianale. Da noi l’artigianato sta soprattutto soprattutto nella fase di produzione (ed è un bene, credo), poi il prodotto è indirizzato su un percorso standardizzato e impersonale già a partire dalla confezione.
Tra le righe leggo anche un diverso equilibrio tra i ruoli. L’editore sceglie, produce e distribuisce (tre parole da cui trapela a fatica la complessità): è il soggetto forte, quello che garantisce la vita commerciale di un testo, quello che ha l’ultima parola e che per definizione deve guadagnare dal suo prodotto. Ma una volta che il libro è fatto, che al mercato (ovvero ai distributori e ai librai) sono chiare le sue coordinate e che s’è investito quel che si doveva investire in marketing, l’editore statunitense fa un passo indietro. A quel punto diventa una relazione tra librario e cliente. E diventa, soprattutto, una questione di empatia a distanza tra autore e lettore (la scrittura è telepatia, dice Stephen King in On Writing). In Europa l’editore è l’ospite. Negli Stati Uniti è il maggiordomo.
mattiaq
Feb 10, 2010 -
Paradossalmente la riflessione che scaturisce da questa illuminante osservazione è che a mio avviso gli editori italiani sono meglio attrezzati per le sfide che hanno davanti. Mi spiego, l’editore americano che non appare sulla copertina del libro è un editore che può facilmente essere disintermediato con un accordo diretto autore-retailer (Amazon). L’editore italiano invece offre un valore aggiunto, quante volte infatti ho scelto un titolo sconosciuto solo perché mi veniva garantito dalla collana di cui faceva parte e che mi era immediatamente riconoscibile (vedi Einaudi appunto, ma anche tante altre case editrici).
giorgio gianotto
Feb 15, 2010 -
Concordo (con Sergio), dissento (in parte) con mattiaq: la pars costruens è facile, la penso esattamente come Sergio, per cui ha detto tutto lui. La pars destruens è più complessa ma sta tutta nelle dinamiche che stanno dietro le collanologie tipicamente italiane e le conseguenti politiche, logiche di mercato, di marketing e di – in generale – cura del prodotto: sono gabbie, formali ma purtroppo con peanti risvolti sostanziali, che credo impediscano quel vantaggio teorico che si potrebbe immaginare. E perdendo la veste, in elettronico, si trasformano in semplici negatività. Per dirla in tre parole, ecco.