Da qualche parte dovremo pur ricominciare a ricostruire questo Paese. Sono convinto da tempo che la soluzione non riuscirà più ad arrivare dall’alto, ma dovrà necessariamente emergere dal basso. Da ciascuno di noi in quanto parte di un soggetto collettivo che ha il dovere di farsi carico del proprio destino. Se le cose vanno come vanno è prima di tutto colpa nostra, altrimenti certe anomalie italiane non sarebbero durate nemmeno un giorno. Ci penso spesso, cercando un appiglio, un innesco per questa rivoluzione gioiosa che sono certo un giorno salverà l’Italia dalla depressione, dalla senilità e dalla rassegnazione. Ieri sera alla stazione centrale di Milano penso di averlo finalmente trovato. Nei panini.
In nessuna stazione o aeroporto in cui mi sia capitato di transitare si mangiano panini altrettanto scialbi, insignificanti, dozzinali. Non necessariamente cattivi: semplicemente si accontentano di essere il meno possibile, il punto di equilibrio più stiracchiato possibile tra necessità delle persone, costo al dettaglio e qualità complessiva. Tu hai fame, loro hanno il cibo: se non ti sei preso per tempo, se viaggi a orari critici, se devi calmare quel languorino che poi ti rende il tragitto una sofferenza non hai alternative. In dieci anni che frequento regolarmente quel luogo non è mai comparsa un’alternativa che sia una, e al contrario ce ne sono sempre meno. Nell’arco di mezzo chilometro, nella seconda città del Belpaese, l’unica alternativa sono i panini di McDonald’s, per dire. Non ho mai mangiato cibo da urlo in una stazione, ma insignificante e avvilente come quello di Milano – che pure ho comprato spesso per necessità e disorganizzazione – da nessuna parte mai.
Allora, ragionavo ieri sera, se volessimo cominciare a prenderci carico delle sorti di questo Paese, i panini della stazione centrale di Milano potrebbero essere un buon punto di partenza. Un pretesto, un simbolo da stampare sulle bandiere che sventoleremo durante la rivoluzione. Sono la metafora perfetta di ogni grettezza, di tutto il cinismo, del primato del commercio su ogni afflato di umanità e di passione per ciò che si fa. Immagino che quei panini facciano girare (non poco) l’economia di quel microcosmo, ma chi conta i soldi deve avere gli occhi foderati di prosciutto, ed è prosciutto scadente. Ecco, cominciare a lottare per quei panini – non tanto per averne di migliori, quanto per rivendicare il nostro sacrosanto diritto alla gioia del palato, alla soddisfazione dell’appetito e al felicità dello stomaco – mi sembra un punto di partenza. Il fatto che non esistano alternative non deve giustificare la nostra complicità. Boicottiamo i panini della stazione centrale di Milano, lottiamo per averne di migliori, marciamo per la dignità dei nostri apparati digerenti. Un uomo è anche ciò che mangia, se mangiamo cibo triste siamo destinati a crogiolarci in questa malinconia. Tutto il nostro essere, a cominciare dalle papille gustative, anela alla felicità. Capaci che se ci prendiamo gusto poi, un po’ per volta, ce la si faccia ad arrivare fino ai massimi sistemi.
(Avevo anche un ragionamento iconoclasta sulla violenza psicologica degli spot rilanciati dagli schermi comparsi nelle stazioni italiane e sul nostro diritto naturale a sabotarli, ma magari un’altra volta.)
Dario
Feb 17, 2010 -
Sergio la questione è affascinante. In sequenza: ti becchi quello schifo perché non c’è altro, non c’è altro perché tutti comprano lì (no competizione), tutti stanno lì perché non hanno tempo di uscire, e non si prendono tempo per mangiare altrove perché pensano al treno, principalmente, non al panino. E’ vero, se si pensa meglio a come arrivare a destinazione, si studiano meglio le tappe. E invece ti tocca correre per campare. Ma allora il primo problema è chi ti fa correre.. o no? O quale ricompensa immagini di guadagnare quando corri.. E’ un trade off che accettiamo implicitamente: schifo nello stomaco pur di arrivare in tempo. Ora se sei libero di non correre puoi anche fare diversamente, ma se ti tocca correre devi cambiare destinazioni e obiettivi. O mollare questo sistema, tipo quelli che ne vanno dall’Italia. A me piace l’idea che in massa si decidano altri valori da raggiungere, si faccia un salto quantico fuori dai monopoli culturali e politici, dalla cooptazione nel mondo del lavoro, dallo sfruttamento, dall’ammorbamento massmediatico. Che si faccia capire a chi c fa correre che non ha più potere su di noi, che possiamo fare a meno di loro. Che piutosto facciamo la fame, ma farci prendere per il c. questo no.
Sergio
Feb 18, 2010 -
Dario, sono d’accordo con te, chiaramente i panini erano una metafora e una semplificazione. Il mio punto, in soldoni, è: dipende molto di più da noi, da ciascuno di noi, di quanto dipenda da un generico “loro”. Ma questo vale anche per ciascuno di “loro”, che nel proprio piccolo può scegliere se stare al gioco (vendere panini avvilenti) o fare del proprio meglio (dei panini dignitosi) perché è la cosa giusta da fare a prescindere. Invece per qualche ragione che a me ancora sfugge, ci piace più di quanto abbia senso per il nostro benessere farci «prendere per il c.», che mi sembra un’altra metafora molto adeguata. 🙂
Claudio Cicali
Feb 18, 2010 -
Sono contento di veder scritte opinioni che mi trovo sempre più spesso a pensare (e non a condividere). E la stessa cosa accede negli autogrill, dove anche lì, il monopolio di fatto, certamente non fa bene alle tasche e ai gusti degli avventori.
Comunque mi questi casi mi viene sempre in mente quello che disse mio padre quando, alla fine degli anni 70, era stato in romania: che lo schifo del comunismo si incarnava nelle vetrine mezze vuote dei negozi e del totale menefreghismo di chi ci lavorava: vendessero o meno qualcosa, per loro era indifferente. Esattamente quello che vediamo sempre più spesso nei posti che tu citi.
Rivoluzione politica 2.0: il mio modo di pensare al cambiamento « Panzallaria – blog di panza
Mar 3, 2010 -
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