Una rete di 55 scuole del Friuli Venezia Giulia coordinata dal Liceo Classico Jacopo Stellini di Udine ha studiato per alcuni mesi le implicazioni e le possibili applicazioni dell’intelligenza artificiale generativa nella scuola, con lo scopo di arrivare ad alcune linee guida di indirizzo (davvero interessanti!). Al convegno finale del ciclo di incontri mi è stato chiesto di portare una relazione. Quella che segue è la traccia del mio intervento.

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Io sono un giornalista, anziano abbastanza da aver scritto i primi articoli su una macchina per scrivere e fortunato abbastanza da aver vissuto la (da essere sopravvissuto alla) trasformazione non soltanto tecnologica della mia professione negli ultimi trenta o quarant’anni. Ho visto nascere il web e ho contribuito alla sua divulgazione e sperimentazione, con un occhio di riguardo per le intersezioni tra internet, informazione e dinamiche di comunità. Fin dalla fine degli anni ’90 ho studiato e sperimentato forme e formati per l’informazione online, vivendo contemporaneamente la stagione del grande entusiasmo per le potenzialità che vedevo aprirsi e della grande delusione per l’altrettanto ostinata (e a conti fatti suicida) guerra di retroguardia portata avanti da editori e ordini professionali, in modo particolarmente sconsiderato in Italia.

Oggi lavoro a Good Morning Italia, una startup giornalistica (non più startup in senso stretto, avendo festeggiato quest’anno i 10 anni di attività e superato i 50 collaboratori) che produce briefing informativi. Ve ne accenno perché ritengo che possa essere un caso di studio rilevante per il tema di oggi. Ogni mattina alle 6:30 Good Morning Italia pubblica una sintesi in circa 1.000 parole delle notizie e delle questioni fondamentali da conoscere prima di iniziare la giornata. Il Briefing si rifà idealmente, fin dal nome, al rapporto di intelligence che il Presidente degli Stati Uniti riceve ogni mattina appena sveglio, con gli aggiornamenti rilevanti delle situazioni critiche in tutto il mondo.

Come funziona: la redazione di Good Morning Italia digerisce ogni giorno notizie e approfondimenti dalla stampa di tutto il mondo, seleziona le fonti più interessanti e riassume in poche parole le novità più rilevanti, rimandando per approfondimenti alle fonti selezionate. Una rassegna stampa, se vogliamo semplificare, ma con alle spalle un progetto editoriale che prova ogni giorno a unire i puntini con uno sguardo globale, guidando il lettore a capire che cosa sta succedendo, perché sta succedendo e che cosa potrebbe succedere. Ogni edizione è prodotta da due giornalisti: il primo lavora fino a notte fonda per produrre la bozza dell’edizione del mattino, mentre all’alba un suo collega verifica gli ultimi aggiornamenti, integra gli articoli più interessanti usciti sui giornali del giorno e confeziona il prodotto finito. Durante il giorno, poi, una squadra di collaboratori produce un’ulteriore ventina di edizioni derivate dalla principale e personalizzate su misura per clienti aziendali o per mercati specifici.

Ora, se mi avete seguito fin qui, forse avrete colto alcune parole chiave: selezione, sintesi, unire i puntini. Che cosa vi fa pensare? Esatto: noi con l’intelligenza artificiale andiamo a nozze. Da alcuni mesi stiamo sperimentando e gradualmente inserendo nel nostro sistema editoriale applicazioni per supportare il lavoro dei giornalisti, ridurre i tempi di lavorazione e proporre nuove declinazioni e nuovi formati per i nostri prodotti giornalistici. Benché il controllo finale sia e dovrà sempre essere quello di un redattore esperto, già oggi l’intelligenza artificiale ci può dare un grande supporto nel trovare le fonti più interessanti e selezionare gli articoli che garantiscono un certo livello di approfondimento e di qualità oggettiva. Con l’intelligenza artificiale possiamo produrre bozze prelavorate delle unità di contenuto, unendo i dettagli più rilevanti raccolti tra diverse fonti.

Good Morning Italia ha uno stile peculiare: asciutto e puntuale, ma con concessioni all’ironia e alla leggerezza, in particolare nei titoli. Opportunamente istruita, l’intelligenza artificiale ha già dimostrato di equivalere la creatività di un essere umano. Con il prossimo aggiornamento della nostra piattaforma editoriale introdurremo inoltre il supporto alle traduzioni dei contenuti, per ridurre in modo significativo i tempi richiesti per la trasformazione delle notizie che alimentano le edizioni internazionali. Come potete immaginare, il tempo, per un’azienda che concentra la distribuzione della gran parte dei suoi prodotti in due ore al mattino, è chiaramente un fattore competitivo.

Su un fronte di ricerca e sviluppo più avanzato, grazie alla collaborazione con Activate Intelligence, che è il nostro partner tecnologico e che sta istruendo per noi alcuni agenti specializzati, stiamo sperimentando due prodotti nuovi totalmente costruiti su applicazioni di intelligenza artificiale. Il primo è una versione del Briefing pensata per essere stampata su carta. Questa è una richiesta che ci è arrivata dal mercato, in particolare dal settore della ricettività, dagli hotel: abbiamo scoperto che più di qualcuno era interessato a stampare le notizie e offrirle ai propri clienti al posto del giornale in sala colazioni. Così abbiamo messo loro a disposizione una piattaforma dedicata. Con una routine quotidiana e totalmente automatizzata, ogni mattina i contenuti del Briefing vengono presi dall’intelligenza artificiale appena sfornati, impaginati in modo da riempire comodamente un foglio A4 fronte e retro, tradotti in tre lingue, brandizzati col logo dell’hotel, salvati in formato pdf e spediti via email agli alberghi abbonati, che già alle 7 possono stamparne alcune copie e metterle a disposizione dei propri clienti. Inoltre, ogni edizione riporta un QR code per l’accesso all’edizione online, per permettere agli interessati di accedere alle fonti linkate e comunque di continuare a leggere i contenuti anche in un momento successivo.

Il secondo fronte di sperimentazione su cui stiamo lavorando riguarda invece la versione audio. Questo non è ancora un prodotto disponibile, stiamo lavorando ad alcuni prototipi interni. La versione podcast del Briefing è in effetti una delle richieste che ci arrivano più di frequente dai lettori e che per il momento non siamo stati in grado di offrire. Oggi stiamo studiando, avendo i primi riscontri positivi, il modo per produrlo utilizzando l’intelligenza artificiale. Ovviamente non basta far leggere il testo a una sintesi vocale: è necessario prima rielaborare il testo, renderlo più naturale per una lettura a voce, legare i vari passaggi, montare e sonorizzare il tutto. I primi test che abbiamo condotto utilizzando voci umane clonate, di cui oggi si trova in commercio già un’ampia biblioteca, cominciano a essere piuttosto soddisfacenti.

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Condivido due piccole epifanie che mi porto dietro da questi primi mesi di sperimentazione sull’intelligenza artificiale. La prima: addestrare l’intelligenza artificiale a supportare la produzione di contenuti giornalistici è di gran lunga una delle attività giornalistiche più stimolanti che mi sia capitato di osservare negli ultimi anni. Costringe a ripensare nel dettaglio al metodo, a tornare alle basi, a esplicitare che cosa discrimina il giornalismo dai riempitivi di bassa qualità. Quando produci contenuti molto sintetici, come nel caso di Good Morning Italia, ogni parola è decisiva: devi produrre la miglior sintesi nel minor spazio possibile, mettendo a fuoco i concetti essenziali. Il metodo giornalistico è a modo suo un algoritmo e per insegnarlo all’intelligenza artificiale dobbiamo definirlo con precisione, scrostarlo da decenni di appesantimenti stilistici, dalle scorciatoie dettate dalla fretta, dalle furbizie commerciali, dalle deviazioni dallo scopo. Ed è un esercizio molto salutare.

La seconda epifania è una similitudine. Vengo da una città che si è sviluppata soprattutto grazie al settore manifatturiero, a cominciare dal tessile. La chiave è stata la ricchezza di rogge e di corsi d’acqua, che col loro scorrere fornivano la forza che muoveva i primi telai meccanici e in un secondo tempo l’elettricità per alimentarli. La capacità dell’uomo, la portata della capacità dell’uomo, è stata espansa in modo decisivo dall’innovazione tecnologica. È cambiato il mondo, con quella tecnologia, e oggi la ricordiamo giustamente come una rivoluzione industriale. Quello che è accaduto in passato per le abilità fisiche e artigianali dell’uomo sta ora avvenendo con il suo pensiero, che viene espanso da una tecnologia in grado di accelerare e replicare a dismisura le sue capacità elaborazione e di produzione cognitiva. Chiamiamola quinta o sesta rivoluzione industriale o forse prima rivoluzione industriale del pensiero non so, ma questo è in sostanza. Il cambiamento di scala che ci attende all’orizzonte è paragonabile almeno al cambiamento di scala che passa tra la bottega del piccolo sarto e la fiorente industria tessile di fine Ottocento. In realtà diversi ordini di magnitudine superiore, perché nel mondo del digitale, tutte le piccole o grandi rivoluzioni dei contenuti, dei dati, delle relazioni, della conoscenza che si sono succedute, lavorando per così dire entro un sistema operativo comune, si contagiano e si potenziano vicendevolmente. 

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Ora, il grande problema quando parliamo delle innovazioni sostanziali che promettono di rivoluzionare il nostro rapporto con la conoscenza e con le interazioni fondamentali delle nostre comunità è che la società contemporanea, forse per difesa, forse per difesa delle rendite di posizione delle sue leadership, tende a non farsi troppe domande sul futuro, a ignorare le sfide, a non guardare al di là delle ricadute immediate, il più delle volte osservandole in negativo, come una minaccia. Siamo ancora, e in Italia molto più che altrove, figli della società delle mediazioni di massa, rifiutiamo istintivamente tutto ciò che nega le dinamiche di cui siamo ancora espressione. Alla complessità esplosiva di questi anni, che richiederebbe strutture leggere e flessibili, rispondiamo con organizzazioni ancora bizantine, elefantiache, pesantissime da riconvertire. Conservare, per contro, è sempre meno sinonimo di far funzionare, come dimostra la fatica di dare risposte che caratterizza un po’ tutti gli ambiti dell’apparato che chiamiamo “Stato”.

Anche nei casi in cui proviamo a cogliere le opportunità offerte degli strumenti contemporanei, forse più per moda o per pressione sociale che per reale convinzione, finiamo per dar vita realtà parallele in cui il burocrate che non è messo nelle condizioni di prendersi responsabilità incontra l’informatico che esegue acriticamente e insieme producono una versione digitale più complicata di processi ottocenteschi, facendo perdere una volta di più alla società l’enorme occasione di ripensarsi e di semplificare il proprio funzionamento alla radice. Penso alla digitalizzazione dei servizi del fisco o della previdenza, alla maggior parte dei servizi remoti dei comuni, in cui è ancora l’utente, il cittadino, a doversi adeguare a classificazioni, nomenclature, percorsi del tutto innaturali, specchio unicamente del linguaggio burocratico dell’ente e della sue sovrastrutture interne.

Mi viene sempre in mente, in questi casi, il sistema di pagamento digitale della pubblica amministrazione, PagoPA, nato con buone intenzioni durante la felice esperienza di Diego Piacentini come Commissario straordinario per l’attuazione della transizione digitale e subito dopo la sua partenza stravolto. Doveva essere una piattaforma unica per i pagamenti: immediata, semplice, universale. Appena se n’è andato Piacentini è stata spacchettata in venti circuiti regionali e numerose sottoclassificazioni, aumentando a dismisura i costi e complicando enormemente un servizio che aveva senso proprio in quanto unico, basilare, centralizzato ed economico. Il futuro ci piomba addosso come una slavina, e noi indifesi e arroganti fischiettiamo a fondo valle. 

Uso ancora come esempio il settore che conosco meglio, quello del giornalismo. L’economia dell’informazione è stata a lungo l’economia delle tipografie, dei trasporti, delle edicole, degli impianti di emissione. La remunerazione del lavoro giornalistico, peraltro in passato uno dei mestieri meglio pagati in assoluto, era trainata dai margini del prodotto cartaceo nel caso del giornale e da quelli del mercato pubblicitario nel caso della televisione. Da anni i giornali stanno perdendo in media il 10% di diffusione all’anno. I grandi giornali, che negli anni ’80 superavano il milione di copie e che alla fine del secolo avevano quasi dimezzato le copie vendute, oggi sono scesi spesso sotto le 100.000 copie. Con 100.000 copie non si può più parlare nemmeno di copertura nazionale. La tv, per contro, si è autosabotata con il passaggio al digitale terrestre, ha frammentato l’audience in centinaia di nicchie spesso nella pratica non sostenibili e oggi festeggia campioni d’ascolto che nella migliore delle ipotesi raccolgono una frazione dei programmi di punta degli anni ’80.

A fronte di questo fallimento imminente e annunciato, che mette seriamente a rischio la sopravvivenza di una funzione essenziale per la democrazia come il giornalismo, non sembra corrispondere uno sforzo adeguato a comprendere come trasferire l’informazione online sfruttando le peculiarità dell’ecosistema digitale e reinventando il proprio ruolo. La Rete non è mai entrata seriamente nei piani dei grandi editori italiani e anche laddove vi siano stati esperimenti concreti, giornalisti ed editori hanno continuato a cercare di fare i gatekeeper, i depositari di un processo che non è più loro esclusiva da almeno due o tre decenni. Senza contare l’aggravante oggettiva, per il nostro Paese, di un mercato – il mercato in lingua italiana – che in partenza troppo piccolo per pensare di costruire le economie di scala necessarie.

Cresce soltanto chi tenta la via della qualità, della relazione fiduciaria con chi legge, del servizio al lettore. Uno dei casi più interessanti è quello del Post, giornale online sostenuto da decine di migliaia di abbonati e che partendo quattordici anni fa da una nicchia di attenzione rigorosa per la semplificazione, il processo, il linguaggio e per la precisione, il tutto senza imporre nessuno sbarramento alle notizie per i non abbonati, oggi sta estendendo considerevolmente il raggio d’azione e insidiando lo stanco e caotico primato dei siti dei maggiori quotidiani nazionali. Sempre ammesso poi, naturalmente, che i numeri assoluti siano ancora una misura utile a valutare il valore distillato dalle relazioni che possono essere attivate da un sito giornalistico.

Stenta chi cerca soltanto di confezionare un prodotto al costo minore possibile e piazzarlo sul mercato al costo più alto possibile. Cresce chi serve una relazione con le persone e diventa hub della propria comunità di riferimento. Una storia significativa in questo senso arriva da Varese. Varesenews è una testata storica, esiste dal 2000 ed è sostenuto da un consorzio territoriale trasversale che unisce enti locali e partner industriali. Varesenews sta trasferendo la propria sede in una scuola abbandonata nella frazione di Sant’Alessandro: la vecchia scuola, reinventata, ospiterà la redazione, ma anche eventi, formazione, confronti di comunità. Si chiamerà Materia e il fatto che fosse una scuola e che le si voglia ridare vita come luogo di comunità mi pare particolarmente affascinante.

Mi ricorda tra l’altro quello che accadde a Pordenone ormai più di un decennio fa, quando una precoce webtv cittadina, Pnbox, prese in gestione la bastia del castello di Torre, impiantandoci dentro gli uffici, la redazione, gli studi televisivi e in mezzo a questi un ristorante e un palco per eventi. Finì, per dire ancora della lungimiranza delle classi dirigenti, con una denuncia dell’Ordine dei giornalisti, poi archiviata. Ma per qualche anno fu centro di raccolta e acceleratore di relazioni per nerd e pensatori laterali della zona, un volano di progetti e sodalizi culturali e civici di cui si è poi sentita la mancanza. 

In ambito più internazionale vi segnalo anche la Civic Hall di New York, uno spazio civico residenziale in Union Square, creato sulla scia dei Personal Democracy Forum, una serie di conferenze annuali internazionali organizzate negli Stati Uniti e in Europa per approfondire l’impatto della rete sulla politica e sulle dinamiche civiche.

Ecco, abbiamo più che mai bisogno di luoghi aperti al confronto, accoglienti, riservati a pensieri lunghi e non immediatamente convertibili in dinamiche di mercato. Abbiamo bisogno di pensare insieme che cosa fare di questo progresso esponenziale che rischia di travolgerci, se non gli troviamo un capo e una coda, e un modo per cavalcarlo insieme. Abbiamo bisogno di tempo, spazio ed esperienze per cominciare a fare e a farci le domande. Le domande giuste, come ci richiede l’intelligenza artificiale.  Voi qui oggi, mentre celebrate il traguardo di un progetto di studio importante, collettivo e collaborativo, siete un meraviglioso esempio proprio di questo.

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A volte mi chiedo se non sia già troppo tardi. Nel senso che anche le applicazioni sociali online su cui si potrebbero basare molti processi civici di rinascita sono molto cambiate in questi anni. L’ecosistema dei blog, degli hub, dei filtri distribuiti e condivisi, della spontaneità e della condivisione dell’esperienza e della conoscenza, tutto questo fermento è stato prima fagocitato dalle grandi piattaforme di social networking, che hanno ottimizzato, potenziato e portato alle masse il processo (e questo è stato a prescindere un bene) e poi cercato di spremerlo a scopi commerciali (e qui forse qualcosa per strada ce lo siamo persi).

Poi però è intervenuta la degenerazione di queste piattaforme in strumenti cinici per lo sfruttamento dell’attenzione e delle debolezze delle persone Sono stati disincentivati i contenuti più impegnati, le fonti di qualità che cercavano una remunerazione, le notizie (ditemi se nella vostra bacheca di Facebook compaiono ancora le notizie). È stato invece lasciato spazio ai produttori seriali di infotainment (quel miscuglio posticcio di notizie di seconda mano, clickbait e facile presa sui pregiudizi della geste), all’autoreferenzialità, ai fenomeni mordi e fuggi. Drogati di serendipity, impigriti dall’interminabile sequenza passiva di foto e video, rimpinzati di infinite varianti di qualunque dettaglio su cui il nostro sguardo dia anche solo l’impressione di posarsi per un istante, stiamo trasformando una straordinaria macchina per la costruzione di senso sociale, per la costruzione di comunità, in una tv più sciatta e cinica di quella pur mediocre che ha plasmato la nostra società negli anni ‘80. “Frenetica e superficiale, finta e scintillante. Sempre molto snack, anche quando contenga informazioni, utile per suscitare curiosità ma non per approfondire”, diceva l’altro giorno sul Foglio Vincenzo Cosenza.

E se l’assenza di una visione di comunità nella conquista di massa degli spazi digitali ha senz’altro contribuito a svilire le potenzialità e a lasciare la strada a squali e avventurieri degli spazi digitali, l’anello debole di tutta la vicenda e dal mio punto di vista l’aspetto più allarmante, a me sembra l’atrofizzazione della domanda (di nuovo il concetto di domanda che torna, chissà se è un caso, anche se in questo caso intendo la domanda in termini economici). Ci lamentiamo costantemente del livello dell’offerta: la mediocrità dei media, l’incapacità della classe dirigente, la sciatteria dei contenuti, le bassezze del marketing. Ma quello che a prescindere sembra mancare alla base è una domanda consapevole, una domanda formata, una domanda di comunità, una domanda di condivisione, una domanda di responsabilità, una domanda di partecipazione. Il problema, in altre parole, non è tanto quello che ci viene dato, ma quello che chiediamo. Il problema siamo noi, ciascuno di noi come individuo, il senso che diamo all’essere azionisti in milionesimi di questo caos informe. 

Attribuiamo ai social media la colpa di averci reso peggiori, di aver stimolato il nostro lato più litigioso e truffaldino. E può anche essere che i social media abbiano peggiorato o più probabilmente reso visibile qualcosa che già c’era, ma che era soffocato dai palcoscenici della società delle élite. Ma questa non può diventare una ragione per arrendersi. Qualche settimana fa è mancato improvvisamente e prematuramente uno dei pochi veri teorici della società digitale e dell’umanità accresciuta che abbiamo avuto in Italia, Giuseppe Granieri. Lo abbiamo salutato in rete con una discussione che, come ai vecchi tempi, è rimbalzata di bacheca in bacheca, di blog in blog, ricordando che cosa sono stati i primi anni del Duemila. In tutto il mondo, certo; ma per una volta in modo quasi autonomo in Italia. Le sperimentazioni, le condivisioni, il germe di una comunità che aveva voglia di sperimentare e reinventare i legami e i ruoli. Piccola comunità, troppo piccola, ha detto qualcuno. Devastata dall’arrivo delle masse, ha detto qualcun altro. Ma è proprio ora che le intuizioni di allora vanno agite e sostenute, quel modo di stare in rete propositivo e costruttivo opposto alle inevitabili degenerazioni di ordini di grandezza superiori. È stato un momento commovente, bellissimo e al tempo stesso frustrante, perché anche chi l’ha vissuto allora sembrava essersi tiktokizzato nelle aspirazioni, nel senso di possibilità.

È evidente che, al crescere della dimensione, le sfide esplodono, la complessità esplode, le tensioni esplodono. Come accadrà, del resto, intorno all’intelligenza artificiale, quando da oggetto di ricerca di pochi, terreno di sperimentazione di pionieri e da vantaggio competitivo per le aziende più reattive, diventerà una tecnologia popolare e pervasiva. Sarà allora meno potente e meno affascinante perché accelererà non solo le virtù e le buone intenzioni? O forse già adesso, come in parte già sta già cominciando ad accadere, dovremmo porci il problema di quando Gpt e Claude assimileranno pattern e tic appartenenti non soltanto al nostro lato migliore, ma anche a quello peggiore? 

Qualche settimana fa è uscita una ricerca molto interessante di un gruppo di ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma che fa riferimento a Walter Quattrociocchi, uno dei maggiori studiosi di comportamenti online. Sono i risultati di un’analisi durata due anni su 500 milioni di commenti pubblicati negli ultimi 35 anni su 8 piattaforme di primo piano, da Usenet (i vecchi forum dell’era pre-web) a Facebook e Reddit. I risultati sono per certi versi illuminanti, anche se non consolanti: non sono i social media a renderci peggiori, ma – e cito –  “la tossicità [delle relazioni] è una costante intrinseca al comportamento umano, resistente nel tempo e alla variazioni delle dinamiche di conversazione e degli algoritmi [delle piattaforme]”. Anche “la semplice rimozione di singoli utenti o commenti tossici”, notano i ricercatori, “potrebbe risultare inefficace di fronte a un fenomeno così pervasivo e sistemico”. Houston, direi che qui abbiamo un problema. Anzi: mondo della scuola, abbiamo un problema. Ma non è un problema di internet, dei social media o dell’intelligenza artificiale. È un problema di materia prima, per così dire. È un problema di disegno sull’umanità che vogliamo, sul modo in cui la formiamo e sulle prospettive di vita che vogliamo darle.

Non tocco nemmeno, perché sarebbe un altro capitolo gigantesco che non abbiamo tempo di approfondire oggi, il tema del rapporto tra i giovani e le nuove tecnologie, su cui come società stiamo costruendo uno dei nostri più sciagurati errori, scambiando completamente cause ed effetti, attribuendo alla tecnologia (che certo ha un ruolo) i danni che invece stiamo facendo noi adulti, noi genitori, noi insegnanti per il nostro modo di essere comunità, una comunità paranoica, spaventata, al servizio di interessi opachi, inconsapevole e impreparata, più incline a raccontarsi storie che a prendersi le responsabilità del presente.

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Insomma, tante parole per lasciarvi in realtà una morale e una conclusione abbastanza semplice, perfino banale, e non a caso di fronte a una platea prevalentemente scolastica, perché io sono ancora convinto del fatto che è nella scuola che viene custodito il germe della società. Dobbiamo, con una certa decisione, con una certa urgenza, ricominciare dalle basi, dalla formazione dei cittadini, dalla preparazione alla complessità, da un progetto di vita e di comunità pienamente contemporaneo, pensato insieme, costruito insieme, portato avanti insieme. Da troppi anni teniamo i piedi in troppe staffe, a tutti i livelli, dalla scuola, al lavoro, alla politica, alla cultura, cercando di tenere insieme allo stesso tempo Ottocento, Novecento e Duemila senza mai scegliere, senza fare scelte definite, subendo il succedersi delle tensioni epocali e perdendo di vista la possibilità se non di controllarli, ormai forse impossibile, almeno di indirizzare questi processi. O quanto meno di scegliere come affrontarli.

Dobbiamo ricominciare a chiederci se stiamo formando cittadini consapevoli dell’epoca in cui vivranno, in grado di difendersi dalle sfide che affronteranno. Dobbiamo chiederci se vogliamo una società inclusiva, che promuova gli sforzi di tutti, ma non perché la democrazia sia bella (la democrazia è lacrime e sangue): perché nell’era delle piattaforme e delle intelligenze artificiali l’alternativa alla democrazia esercitata è molto più facilmente che in passato la dittatura. La società della mediazioni di massa poteva ancora riuscire a tenere in equilibrio democrazia e tendenze oligarchiche delle élite, nascondendo sotto il tappeto a monte e a valle parte del processo. Ora stiamo uscendo da un’era straordinaria di equilibri prolungati, mentre di fronte a quel che resta delle nostre vite ma soprattutto a quella dei nostri figli c’è un’epoca di stabilità e prosperità che è tutta appena da guadagnarsi. Non credo onestamente che continuare a temporeggiare sia, se mai è stata, un’opzione.

Grazie a voi qui oggi perché il vostro impegno di questi mesi è un inizio, è un tentativo, è un esercizio di buona volontà. E so bene quanto poco sia scontato.