Siccome alla prova dei fatti nessuno è profeta in patria, provo ad articolare il ragionamento qui. Ho cambiato idea riguardo alle reti civiche cittadine. Non l’ho cambiata, in realtà, l’ho soltanto evoluta e adeguata allo scenario 2009. Come al solito ragiono su questo argomento a partire da un caso pratico e che conosco bene, ovvero le sperimentazioni in corso a Pordenone (nei miei archivi: 1, 2, 3, 4, 5). E arrivati alla primavera del 2009, tre anni e mezzo dopo la comparsa dell’idea nei programmi elettorali della coalizione vincente nella mia città, due anni e mezzo dopo l’inizio di un percorso allargato di progettazione, nove mesi dopo l’abbandono della prima fase di sperimentazione e ora in attesa di sviluppi, io credo che ora Pordenone dovrebbe cambiare progetto.

Non sono più convinto che le città debbano farsi la propria rete, direttamente o attraverso collaborazioni con operatori specializzati. Di fatto mi allineo alle posizioni di cui si era fatto interprete Alfonso Fuggetta qualche mese fa. Rinnego anche la necessità di un social network ad hoc, di cui sono stato forte sostenitore in passato. Naturalmente questo non significa che le città non debbano avere un ruolo nella promozione e nella diffusione della cittadinanza digitale, e anzi. Ma in questi ultimi mesi hanno fatto passi da gigante sia la tecnologia (crescita delle opportunità e delle modalità di connessione domestica e in mobilità, a cominciare dalle chiavette delle telecom) sia le persone (maggiore consapevolezza dello strumento e delle applicazioni sociali, a cominciare dal boom di Facebook).

Sono sempre più convinto che il digital divide si stia facendo da tecnologico a culturale. Restano disparità di accesso, da combattere certo, ma il problema più grande è il crescente rifiuto (sempre più spesso ideologico) delle opportunità da parte di chi non conosce la rete o non la vuole conoscere, un rifiuto che è tanto più accanito e determinante quanto più si sale nelle gerarchie della responsabilità. Sono convinto che se agiamo sul divide culturale, quello tecnologico andrà da sé e in tempi ragionevoli. Allora piuttosto che spendere soldi su un’infrastruttura che prosciugherà il bilancio degli enti locali e richiederà ulteriori spese per la manutenzione e l’assistenza, piuttosto che far fare al comune un lavoro che non è il suo (l’operatore di comunicazioni, anche se per interposto soggetto), io investirei sulla consapevolezza della città rispetto alle opportunità digitali. Nell’interesse della comunità cittadina, oltre che dei singoli. E in modo scalabile, ovvero definendo una rosa di priorità e adeguando nel tempo gli interventi alle condizioni contingenti – che sappiamo in rapidissima e forse inarrestabile evoluzione.

Allora, se oggi avessi la responsabilità politica di definire un piano locale di intervento, la metterei giù così:

Disparità nell’accesso. L’ente locale non crea più la rete, ma interviene in tutte le situazioni in cui i suoi cittadini non sono messi nelle condizioni di accedere in modo equo alla rete esistente dei gestori specializzati. Su tre fronti: fornendo postazioni pubbliche di accesso alla rete, supportando con bandi e microfinanziamenti appositi le fasce più deboli; imponendosi in tutte le configurazioni immaginabili (gruppi d’acquisto, convenzioni ad hoc, imposizione del peso istituzionale) come mediatore tra i provider e i cittadini, per ottenere le migliori condizioni commerciali e tecnologiche possibili sul territorio.

Promozione della presenza della città in rete. L’ente locale si fa promotore di tutte le iniziative utili per avviare punti di presenza e comunità di interesse in tutti i principali social network: non soltanto per rappresentare se stesso (ovvero per esprimersi e per ascoltare quanto di sua competenza, attraverso personale delegato), ma anche e soprattutto per favorire e lanciare l’iniziativa dei cittadini. Parallelamente, l’ente locale potrebbe sperimentare sul proprio sito web o su siti appositi alcune sezioni innovative aperte al dialogo e allo scambio di informazioni con i cittadini, ricorrendo alle tante tecnologie di rete disponibili (mashup tra mappe, strumenti di pubblicazione, sistemi di relazione, aggregatori di conversazione eccetera).

Promozione della cultura e delle opportunità digitali. L’ente locale, direttamente oppure promuovendo la collaborazione di altri enti locali, università e associazioni, si fa promotore di cicli di incontri e occasioni formative a tutti i livelli (tecnologie, strumenti, processi). Approfitterebbe di ogni evento cittadino per declinare l’occasione anche in ottica digitale con spazi e approfondimenti a tema. Non corsi di computer, ma incontri e scambi di esperienze dal vivo con le persone e le idee che in Italia e nel mondo stanno trainando la corsa alla società digitale, compresi quanti si fanno portavoce dei possibili rischi.

Coordinamento cittadino delle iniziative. Questo è un mio vecchio pallino: si prendono tre ragazzi promettenti, li si forma allo stato dell’arte dell’abitanza digitale e li si mette a disposizione della città per accumulare conoscenze, moltiplicare i contatti, promuovere iniziative, consigliare aziende istituzioni e cittadini, inventarsi cose online. Sarebbe una gran bella scommessa sul futuro di una comunità locale: la città in rete è un laboratorio vivo, che ha bisogno di un riferimento visibile, riconoscibile e reattivo. O, il più delle volte, di una pacca sulla spalla per cominciare.

Quanto costerebbe tutto ciò? Di sicuro non più di quanto potrebbe costare l’installazione e la manutenzione di un impianto cittadino di connettività wireless, mentre sono certo che renderebbe enormemente di più a breve, medio e lungo periodo. Piuttosto mi rendo conto che non sarebbe affatto facile spiegarlo ai propri elettori: se gli hai promesso il WiFi, gli hai fatto addirittura provare il WiFi, hai ventilato scadenze di diffusione capillare che non manterrai, ora che cosa fai, ti rimangi la parola e ripieghi su un progetto molto più difficile da comunicare? E tutto questo a pochi mesi/anni da appuntamenti elettorali che si preannunciano complicatissimi?

Io non sono proprio fatto per ragionare a questo livello. Ma da cittadino indipendente dico che apprezzerei molto se chi mi ha promesso fin qui la zuppa pronta oggi mi dicesse: «Beh, sapete che cosa? L’esperienza fatta fin qui, perché a questo progetto abbiamo lavorato un sacco anche se non si vedono ancora risultati pratici, ci ha insegnato che è oggi molto ma molto più importante investire per portare in città più cereali, più farina, più olio e più formaggio e per insegnare a ognuno di voi a farsi la zuppa da sé. Di più: noi dobbiamo creare le condizioni perché ciascuno di voi possa inventarsi nuove ricette e condividerle con i suoi vicini. Due anni fa era presto, oggi no. E non saremmo buoni amministratori se oggi noi vi preparassimo la zuppa soltanto per rispettare una promessa concepita leggendo una realtà completamente diversa». Aggiungerei anche: «E se siete così ottusi da non capirlo, ve la meritate la classe dirigente che governa l’Italia da diversi decenni a questa parte». Ma io non avrei speranze come politico, questo è chiaro.