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Tag: alfonso fuggetta

Aprile 10 2009

Siccome alla prova dei fatti nessuno è profeta in patria, provo ad articolare il ragionamento qui. Ho cambiato idea riguardo alle reti civiche cittadine. Non l’ho cambiata, in realtà, l’ho soltanto evoluta e adeguata allo scenario 2009. Come al solito ragiono su questo argomento a partire da un caso pratico e che conosco bene, ovvero le sperimentazioni in corso a Pordenone (nei miei archivi: 1, 2, 3, 4, 5). E arrivati alla primavera del 2009, tre anni e mezzo dopo la comparsa dell’idea nei programmi elettorali della coalizione vincente nella mia città, due anni e mezzo dopo l’inizio di un percorso allargato di progettazione, nove mesi dopo l’abbandono della prima fase di sperimentazione e ora in attesa di sviluppi, io credo che ora Pordenone dovrebbe cambiare progetto.

Non sono più convinto che le città debbano farsi la propria rete, direttamente o attraverso collaborazioni con operatori specializzati. Di fatto mi allineo alle posizioni di cui si era fatto interprete Alfonso Fuggetta qualche mese fa. Rinnego anche la necessità di un social network ad hoc, di cui sono stato forte sostenitore in passato. Naturalmente questo non significa che le città non debbano avere un ruolo nella promozione e nella diffusione della cittadinanza digitale, e anzi. Ma in questi ultimi mesi hanno fatto passi da gigante sia la tecnologia (crescita delle opportunità e delle modalità di connessione domestica e in mobilità, a cominciare dalle chiavette delle telecom) sia le persone (maggiore consapevolezza dello strumento e delle applicazioni sociali, a cominciare dal boom di Facebook).

Sono sempre più convinto che il digital divide si stia facendo da tecnologico a culturale. Restano disparità di accesso, da combattere certo, ma il problema più grande è il crescente rifiuto (sempre più spesso ideologico) delle opportunità da parte di chi non conosce la rete o non la vuole conoscere, un rifiuto che è tanto più accanito e determinante quanto più si sale nelle gerarchie della responsabilità. Sono convinto che se agiamo sul divide culturale, quello tecnologico andrà da sé e in tempi ragionevoli. Allora piuttosto che spendere soldi su un’infrastruttura che prosciugherà il bilancio degli enti locali e richiederà ulteriori spese per la manutenzione e l’assistenza, piuttosto che far fare al comune un lavoro che non è il suo (l’operatore di comunicazioni, anche se per interposto soggetto), io investirei sulla consapevolezza della città rispetto alle opportunità digitali. Nell’interesse della comunità cittadina, oltre che dei singoli. E in modo scalabile, ovvero definendo una rosa di priorità e adeguando nel tempo gli interventi alle condizioni contingenti – che sappiamo in rapidissima e forse inarrestabile evoluzione.

Allora, se oggi avessi la responsabilità politica di definire un piano locale di intervento, la metterei giù così:

Disparità nell’accesso. L’ente locale non crea più la rete, ma interviene in tutte le situazioni in cui i suoi cittadini non sono messi nelle condizioni di accedere in modo equo alla rete esistente dei gestori specializzati. Su tre fronti: fornendo postazioni pubbliche di accesso alla rete, supportando con bandi e microfinanziamenti appositi le fasce più deboli; imponendosi in tutte le configurazioni immaginabili (gruppi d’acquisto, convenzioni ad hoc, imposizione del peso istituzionale) come mediatore tra i provider e i cittadini, per ottenere le migliori condizioni commerciali e tecnologiche possibili sul territorio.

Promozione della presenza della città in rete. L’ente locale si fa promotore di tutte le iniziative utili per avviare punti di presenza e comunità di interesse in tutti i principali social network: non soltanto per rappresentare se stesso (ovvero per esprimersi e per ascoltare quanto di sua competenza, attraverso personale delegato), ma anche e soprattutto per favorire e lanciare l’iniziativa dei cittadini. Parallelamente, l’ente locale potrebbe sperimentare sul proprio sito web o su siti appositi alcune sezioni innovative aperte al dialogo e allo scambio di informazioni con i cittadini, ricorrendo alle tante tecnologie di rete disponibili (mashup tra mappe, strumenti di pubblicazione, sistemi di relazione, aggregatori di conversazione eccetera).

Promozione della cultura e delle opportunità digitali. L’ente locale, direttamente oppure promuovendo la collaborazione di altri enti locali, università e associazioni, si fa promotore di cicli di incontri e occasioni formative a tutti i livelli (tecnologie, strumenti, processi). Approfitterebbe di ogni evento cittadino per declinare l’occasione anche in ottica digitale con spazi e approfondimenti a tema. Non corsi di computer, ma incontri e scambi di esperienze dal vivo con le persone e le idee che in Italia e nel mondo stanno trainando la corsa alla società digitale, compresi quanti si fanno portavoce dei possibili rischi.

Coordinamento cittadino delle iniziative. Questo è un mio vecchio pallino: si prendono tre ragazzi promettenti, li si forma allo stato dell’arte dell’abitanza digitale e li si mette a disposizione della città per accumulare conoscenze, moltiplicare i contatti, promuovere iniziative, consigliare aziende istituzioni e cittadini, inventarsi cose online. Sarebbe una gran bella scommessa sul futuro di una comunità locale: la città in rete è un laboratorio vivo, che ha bisogno di un riferimento visibile, riconoscibile e reattivo. O, il più delle volte, di una pacca sulla spalla per cominciare.

Quanto costerebbe tutto ciò? Di sicuro non più di quanto potrebbe costare l’installazione e la manutenzione di un impianto cittadino di connettività wireless, mentre sono certo che renderebbe enormemente di più a breve, medio e lungo periodo. Piuttosto mi rendo conto che non sarebbe affatto facile spiegarlo ai propri elettori: se gli hai promesso il WiFi, gli hai fatto addirittura provare il WiFi, hai ventilato scadenze di diffusione capillare che non manterrai, ora che cosa fai, ti rimangi la parola e ripieghi su un progetto molto più difficile da comunicare? E tutto questo a pochi mesi/anni da appuntamenti elettorali che si preannunciano complicatissimi?

Io non sono proprio fatto per ragionare a questo livello. Ma da cittadino indipendente dico che apprezzerei molto se chi mi ha promesso fin qui la zuppa pronta oggi mi dicesse: «Beh, sapete che cosa? L’esperienza fatta fin qui, perché a questo progetto abbiamo lavorato un sacco anche se non si vedono ancora risultati pratici, ci ha insegnato che è oggi molto ma molto più importante investire per portare in città più cereali, più farina, più olio e più formaggio e per insegnare a ognuno di voi a farsi la zuppa da sé. Di più: noi dobbiamo creare le condizioni perché ciascuno di voi possa inventarsi nuove ricette e condividerle con i suoi vicini. Due anni fa era presto, oggi no. E non saremmo buoni amministratori se oggi noi vi preparassimo la zuppa soltanto per rispettare una promessa concepita leggendo una realtà completamente diversa». Aggiungerei anche: «E se siete così ottusi da non capirlo, ve la meritate la classe dirigente che governa l’Italia da diversi decenni a questa parte». Ma io non avrei speranze come politico, questo è chiaro.

Luglio 25 2008

Su LaVoce.info e sul Mondo oggi in edicola c’è un interessante articolo di Alfonso Fuggetta che mette in ordine molte riflessioni recenti a proposito del ruolo pubblico nello sviluppo di reti di telecomunicazione. Dice, in sintesi, che

una strategia di intervento pubblico dovrebbe basarsi su una serie di passaggi molto semplici: piuttosto che avere un ruolo in prima persona di gestore o operatore, il pubblico dovrebbe preoccuparsi di definire le regole, sostenere la domanda (per esempio, di soggetti deboli e pubbliche amministrazioni) ed eventualmente co-investire in quelle società che possono operare da level-playing field e volano per lo sviluppo del mercato. Altre azioni, come vacatio regolatorie o strutture pubbliche che offrano servizi diretti all’utenza, sono un’indebita ingerenza del pubblico nel mercato e un’occasione per investimenti pubblici improduttivi.

[leggi tutto il testo su LaVoce.info]
Aprile 13 2008

Fuggetta rilancia il discorso sulle reti WiFi cittadine con una versione estesa e argomentata del sassolino gettato nello stagno l’altro giorno. Da leggere. In sostanza: la pur benemerita iniziativa pubblica dovrebbe sì sostenere la diffusione dell’accesso a Internet, ma senza disperdere investimenti o mettersi a fare un lavoro che non è il suo. Interessante soprattutto quando sottolinea il rischio che l’avventatezza di oggi potrebbe fossilizzare il problema, piuttosto che risolverlo in modo più veloce ed efficiente.

Mi sto convincendo del fatto che la maggior distanza tra il suo punto di vista e il mio è che quando parliamo di WiFi cittadine pensiamo a due realtà molto diverse. Lui a Milano, io a Pordenone. Un milione e mezzo di persone (che raddoppiano durante il giorno)  in un caso, cinquantamila nell’altro. Chiaro: investimenti, opportunità e potenzialità vanno di pari passo; ma non solo. Parliamo di maturità, stili e consapevolezze molto diversi in fatto di comunicazione. Parliamo di opportunità, molto diverse, anche. E di primi passi che forse Milano ha già fatto da tempo, con le sue reti civiche antelucane e i suoi servizi in tempo reale, mentre Pordenone – così come tante altre località medio-piccole alla periferia dell’impero – ancora deve immaginare di poter compiere.

Insisto dunque sul mio punto, di un valore che so molto residuale rispetto al ragionamento proposto da Fuggetta: vivo la costruenda rete WiFi della mia città come una grande opportunità culturale, molto prima che tecnologica. E mi piace l’entusiasmo candido e genuino che le sta girando intorno. Mi piace che quando i tecnici – comunali e delle società regionali specializzate, secondo un peculiare modello di outsourcing comunque interno alla pubblica amministrazione – installano una nuova antennina in una via del centro si formi subito un capannello di gente. Mi piace che il telefono dei referenti in Municipio suoni spesso, e che questi rispondano di problemi tecnici che stanno cercando di risolvere e non di accordi commerciali ancora da definire. Mi piace che laddove il Comune tentenna in cerca di soluzione, i cittadini comincino a proporre la loro idea. Mi piace che le persone si lamentino del fatto che il loro quartiere non è ancora raggiunto.

Sono certo, pur non potendo supportare la mia affermazione con argomenti da tecnico o da imprenditore, che la chiavetta di una telecom non avrebbe lo stesso impatto sulla comunità. Almeno oggi, almeno per un po’. Fatto il primo passo, stimolata una domanda di rete e un’offerta di contenuti/servizi/relazioni, le esigenze forse saranno altre e ne potremo riparlare. Ma viste le cifre in gioco (per ora l’equivalente di quattro o cinque rotonde, a Pordenone), mi sento di appoggiare l’investimento, fosse anche a fondo perduto. In fondo stiamo parlando di come arrivare nello stesso posto, soltanto seguendo strade diverse ed entrambe ancora da esplorare.

Aprile 10 2008

Da Alfonso Fuggetta è in corso un interessante dibattito (ripreso anche da Federico Fasce) riguardo all’’opportunità di creare reti WiFi cittadine quando ormai le infrastrutture della telefonia mobile, grazie soprattutto alle nuove e pubblicizzatissime chiavette dati, consentono ovunque accessi a Internet competitivi in velocità e costi. Perché dunque duplicare investimenti e disperdere risorse, si chiede più di qualcuno. Le opinioni emerse nei commenti al post originale sono molto varie e in genere ben documentate, ne consiglio la lettura. Io non sono un tecnico in senso stretto e non mi sento di avere ancora una posizione forte sull’argomento, tuttavia sono particolarmente sensibile allo sviluppo di reti wireless locali per via della sperimentazione in corso nella mia città. Dunque provo a isolare qualche ulteriore punto a mio parere significativo, badando a non farmi condizionare troppo da tutto il male che penso dei gestori di telefonia mobile.

C’è un aspetto commerciale. Nel caso del WiFi cittadino, la città si costruisce la sua rete, stabilisce le regole di accesso e gestione, identifica il fornitore di banda più conveniente tramite bando, quindi i cittadini usufruiscono di un servizio gestito da loro stessi e pagato dal governo locale con i soldi di tutti. L’’amministrazione pubblica, ideale garanzia degli interessi pubblici, si pone tra il cittadino/utente e l’’operatore commerciale. Il cittadino/utente non ha nemmeno bisogno di sapere chi gli fornisce la banda, poiché il suo interlocutore è l’amministrazione pubblica, per definizione non commerciale. Nel caso in cui la stessa città preferisse invece attivare convenzioni con un operatore di telefonia mobile per l’’uso delle sua infrastrutture dati ad alta velocità, a prescindere dalle condizioni economiche, il rapporto tra cittadino e fornitore tornerebbe a essere diretto e commerciale, con l’’istituzione di garanzia pubblica che si fermerebbe a monte del processo o comunque a sostegno soltanto esterno dello stesso. D’’accordo, sto spaccando il capello in quattro e magari strizzo l’’occhio al più bieco veterocomunismo; ma se penso al mercato attuale della telefonia in Italia, a me non sembra una banalità e propendo nettamente per la prima possibilità.

C’’è, di conseguenza, un aspetto politico. Portando quanto appena detto all’’esasperazione, potremmo dire che nel caso delle WiFi cittadine la connettività a Internet cessa di essere un semplice servizio (commerciale o meno) per diventare un diritto pubblico, parte del bouquet di diritti e doveri insiti nella cittadinanza. Per quello che ho capito di Internet, e sperando di riuscire a scansare ogni paraocchi ideologico, è un’’ipotesi che mi piace parecchio.

C’è un aspetto geografico. La città si può costruire tutte le reti che vuole, ma limitatamente al proprio territorio. Il gestore di telefonia ha, in genere, reti nazionali. Col WiFi cittadino io navigo gratis in tutta la città, ma appena mi sposto nel paese vicino torno ad aver bisogno di connettività, fissa o mobile che sia, personale. Dunque non esaurisco, ammesso che il WiFi pubblico sia mai in grado di farlo veramente, tutte le mie necessità di collegamento in Rete. Questo, a ben vedere, porta acqua al mulino della convenzione con un operatore di telefonia: con la stessa chiavetta che uso a casa e in giro per la città, oggi posso continuare a collegarmi ovunque mi capiti di andare e a una velocità per la prima volta competitiva con i collegamenti Adsl. Grazie al roaming internazionale, con lo stesso dispositivo potrei connettermi perfino all’’estero. Nello stesso tempo, questo aspetto complica un po’ la definizione della convenzione locale: io amministrazione pubblica ti regalo la chiavetta dell’’operatore XY, vincitore di bando pubblico, ti pago tutta la banda che consumerai quando sarai servito dalle celle telefoniche locali (o anche soltanto un forfait annuale), ma al di fuori di ciò diventi un cliente a tutti gli effetti di quell’operatore oppure sei costretto ad attivare un altro contratto personale. Non so, assomiglia sempre più al prospetto di opzioni ed eccezioni che tanto mi fa detestare le tariffe della telefonia contemporanea. Ma certo, il punto di forza della connettività che non conosce confini – in assenza di iniziative pubbliche nazionali – è notevole.

C’è un aspetto progettuale. I tempi pubblici sono dilatati, le reti WiFi che vengono timidamente avviate oggi sono state discusse e progettate non meno di anno fa, quando l’’alternativa della chiavetta Usb/Hsdpa non esisteva ancora, mentre il supporto WiFi era già di serie nella maggior parte dei portatili in commercio. Questo non toglie il fatto che quei progetti oggi possano essere riconsiderati alla luce dell’’avanzamento tecnologico, ma è un elemento che va tenuto presente nel giudicarle.

C’’è infine un aspetto divulgativo, poco concreto magari, ma a cui io tengo molto. L’’iniziativa civica difficilmente riuscirà ad andare oltre l’’offerta di una connettività base, il minimo etico garantito per tutti: la rete potrebbe essere più lenta, affollata e vincolata di quanto un power user sarà mai disposto ad accettare. Chi lavora su/attraverso Internet, così come chi scarica pesantemente audio e video, si terrà aggrappato all’’Adsl o alla fibra ottica ancora per un bel po’’, limitandosi a sfruttare la copertura wireless gratuita durante passeggiate in centro o gite al parco. Ma la città che stende la sua rete e connette i suoi nodi, e non semplicemente un sindaco che promuove l’’abbonamento facilitato alla linea dati di una telecom, ha un impatto simbolico e divulgativo molto più profondo, in grado di raggiungere e coinvolgere anche le fette di popolazione meno facili da interessare e abilitare. Fatevi raccontare quanti anziani hanno affollato lunedì la prima uscita pubblica del WiFi civico di Pordenone, per dire. Date un’’occhiata all’esperienza modulare e partecipata di Ile Sans Fil, progetto canadese che anche Pordenone amerebbe emulare, una volta realizzato lo scheletro di base. Si costruisce tutti insieme qualcosa di nuovo ed è una cesura culturale e tecnologica forte, un inizio che mette tutti sullo stesso piano, non soltanto un’opportunità calata dall’altro che i soliti digerati potranno decodificare e sfruttare per un risparmio peraltro contenuto. Io su questo qualche rischio di disperdere risorse e investimenti sarei disposto a correrlo.

I miei due centesimi. 🙂