Torno da un fine settimana passato a Firenze ad ascoltare tre giorni di convegno sul berlusconismo (disclosure: da alcuni mesi collaboro alle attività online di Libertà e Giustizia, associazione che organizzava l’evento insieme alla rivista Passato e Presente). Posto l’alto livello generale di tutte le relazioni, questa occasione mi ha permesso di mettere meglio a fuoco due distinti atteggiamenti di resistenza democratica rispetto allo strapotere berlusconiano degli ultimi 15 anni. Ci sono quelli che denunciano il sistema/regime, sebbene con documentazione ed eleganza non comuni, e ci sono quelli che scendono in profondità nelle pieghe della società e nella storia italiana, cercando verità talvolta meno appariscenti e meno comode. Così alla severa e appassionata requisitoria civile di Ezio Mauro («Tratto comune del potere berlusconiano è, non lo so dire in altro modo, l’abuso di potere» – video), alla disarmante ricostruzione di Marco Travaglio («Il berlusconismo non è un’ideologia, è un work in progress. È la disperata rincorsa di un uomo solo inseguito dal suo passato, un passato che a volte rischia di raggiungerlo» – video), alla denuncia dello strapotere televisivo e mediatico del presidente del Consiglio a cui ha dato voce Norma Rangeri («Dov’è l’antitrust in questo paese? Che cosa controllano le autorità di garanzia?» – video), io ho finito per preferire di gran lunga le relazioni che sono andate a cercare la polvere sotto il tappeto o meglio ancora quelle che hanno cercato di allargare il quadro oltre i margini consueti. Ne cito quattro, ma sul sito di Libertà e Giustizia si possono già leggere buona parte degli interventi e consultare i video.
La prima è la chiave di lettura sui cambiamenti strutturali del ceto medio proposta da Paul Ginsborg (testo, video). Ginsborg coglie due anime nel ceto medio, una più riflessiva, popolata prevalentemente da lavoratori dipendenti, che guarda con occhio critico allo sviluppo della modernità e si attiva nel sociale; la seconda più concorrenziale, fortemente orientata al mercato e sospinto dalla prorompente crescita del lavoro autonomo di seconda generazione. Tra queste due anime si è progressivamente acuita una distanza dovuta a fattori demografici, alla crescita del livello di istruzione e al progressivo declino del lavoro dipendente. Non sono trasformazioni sociali e culturali imputabili al berlusconismo, ma al contrario sono state cavalcate dal berlusconismo, che sfruttando l’influenza mediatica e il degrado democratico degli anni ’80 ha enfatizzato alcuni valori e stili di vita, trascurandone o denigrandone altri. Berlusconi ha appoggiato esplicitamente i ceti medi concorrenziali a spese dei riflessivi, riservando nei confronti di questi ultimi schiaffi morali e materiali. «L’eredità più dannosa di Berlusconi», sostiene Ginsborg, «è il contributo che egli ha dato alla divisione dei ceti medi, aumentandone l’incomunicabilità e spaccando sostanzialmente l’Italia in due». Interessante, a questo proposito, anche la ricostruzione di Giampasquale Santomassimo (testo, video) sull’eredità degli anni ’80 nel nostro Paese, premessa fondamentale a tutto ciò che in campo politico, sociale e culturale è venuto dopo.
La seconda relazione che segnalo è quella di Alberto Vannucci (testo, video) sulla corruzione come potere invisibile. Vannucci parla di una tassa occulta da 50/60 milioni di euro all’anno soltanto in costi misurabili, perché di questo iceberg conosciamo a malapena il decimo emerso e non siamo in grado di stimare i costi politici e sociali complessivi. In poco più di mezzora Vannucci ha tracciato un quadro agghiacciante del fenomeno, che – alla luce di tutti gli indicatori disponibili – non soltanto non è stato debellato con Tangentopoli, ma al contrario è endemico e connaturato al sistema politico come mai in passato. L’extra profitto (e dunque l’extra costo) delle opere pubbliche raggiungerebbe ormai il 40/50%, di cui soltanto una parte contenuta (6/8%) andrebbe ai politici. Eppure la corruzione non è più una notizia, al punto che viene sempre più spesso sdoganata sulle pagine dei giornali da corrotti e corruttori: la sovraesposizione ha creato assuefazione. Che cosa c’entra Berlusconi? Secondo Vannucci la sua storia politica è strettamente intrecciata con la storia della corruzione italiana ed è lui il massimo beneficiario dell’evoluzione di questo specifico scenario italiano. Vannucci ha portato a Firenze alcuni grafici oltremodo interessanti, di cui finora ho trovato soltanto immagini poco nitide. Una, per esempio, rappresentava l’andamento delle denunce per corruzione e concussione tra il 1984 e il 2004 e presentava picchi interessanti e tutti da studiare in corrispondenza di cicli politici ben determinati (indovinate quali?). Un argomento che è essenziale riprendere in mano a mente fretta e al di là di ogni emotività e discorso di parte per capire meglio la politica italiana, ma più in generale l’Italia di questi decenni.
Ma se c’è stato un momento in cui la bolla di sapone delle politiche berlusconiane sono sembrate scoppiare nel nulla, questo è stato durante l’intervento di Marco Revelli (video), il quale analizzando il rapporto tra politica e povertà ha smantellato i principali presupposti retorici dalla propaganda governativa. «La povertà è il termine opposto all’immaginario berlusconiano, la parola scandalo che non può mai essere pronunciata», ha esordito Revelli. Poi, cifre alla mano, ha dimostrato da ogni punto di vista come l’Italia sia una nazione significativamente più povera che in passato, più povera di buona parte dei vicini continentali e sulla buona strada per impoverirsi ulteriormente. La nazione paladina dei valori della famiglia è per paradosso anche la nazione dove un terzo delle famiglie numerose vive nella povertà assoluta e dove un terzo delle famiglie (che diventa il 15% tra le famiglie operaie e il 30% delle famiglie residenti al Sud) sono in condizioni di povertà relativa. Per non parlare del lavoro, altro passpartout retorico, che rivela tutta la sua fragilità di fronte al crollo della media dei salari (-13% sulla media europea) e alla mancanza di un reddito minimo garantito. Chi ci ha guadagnato di più (o perso meno, in base ai punti di vista) sono le imprese, verso le quali sono transitati 8 punti di Pil ceduti dai lavoratori. Ciononostante le imprese italiane sono le ultime in Europa per investimenti in ricerca. Anche Revelli conclude, come per certi versi già Ginsborg in precedenza, che «il berlusconismo è figlio, non causa, di questo capitalismo straccione». E che è l’urgenza più pressante è «ripristinare l’uguaglianza tra i cittadini», oggi platealmente perduta. Da rivedere e studiare.
Ultima citazione per il divertente intervento di Gustavo Zagrebelsky (testo, video), costituzionalista e presidente emerito della Corte Cosituzionale, che ha tenuto banco per almeno un’ora e mezza, nell’entusiasmo generale, con il suo rigoroso esercizio di decostruzione della retorica e del linguaggio berlusconiano. «La lingua poeta e pensa per noi, pensiamo di usare il linguaggio, in realtà la lingua ci domina inconsapevolmente», dice Zagrebelsky. «Ci sono regimi che hanno inventato parole nuove, questa invece è una lingua terra terra, che usa parole consuete con significati nuovi oppure ricorre a parole tratte da altri contesti». Da qui parte un percorso per concetti, ciascuno sezionato fino a denunciarne le forzature, le contraddizioni, i limiti, le corruzioni: scendere in campo, contratto, amore, assolutamente, fare, lavorare, decidere, politicamente corretto. Rivelando tempi comici strepitosi, Zagrebelsky ha regalato una lezione che andrebbe mostrata in tutte le scuole non tanto (o non soltanto) come dispensa di analisi critica sul potere, salutare a prescindere dalle posizioni politiche di ciascuno, ma soprattutto come esercizio di pulizia di pensiero e di espressione.
Ho registrato, durante i tre giorni fiorentini, la voglia diffusa di uscire dalla fiction politica dominante, per tornare a cercare un briciolo di realtà e di verità su noi stessi. Senza sconti al berlusconismo, che evidentemente in questa occasione è stato l’imputato ricorrente dei peggiori mali italiani, ma nemmeno alla sinistra e alla società civile, che troppo spesso hanno abdicato al proprio ruolo ripiegando verso un’opposizione superficiale, talvolta isterica e occasionalmente complice. C’è un vuoto da colmare, come ha detto nella sua sintesi Sandra Bonsanti (video), presidente di Libertà e Giustizia. Un vuoto che ognuno dovrebbe contribuire a riempire, riscoprendosi parte di un ecosistema dentro al quale ci si salva tutti insieme o si affonda tutti insieme.