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Tag: terza età

Novembre 19 2007

La dico tutta: a me Second Life, così come tutte le costruzioni metaforiche pesantemente interposte nei rapporti tra esseri umani, non convince ancora e non credo mi appassionerà facilmente (benché g.g. contrapponga ragionamenti appassionanti). Non è che mi stia stretta, la seconda vita. Al contrario, mi sta larghissima: mi basta e avanza la prima, con tutte le sue eventuali appendici in Rete. L’avatar mi distrae e mi stanca, preferisco ancora l’asincronicità multimediale del web. Detto ciò è anche vero che gli esperimenti dell’Accademia Non Convenzionale della Cultura Digitale sono stati finora molto interessanti, soprendenti nella facilità di creare un contesto per incontri, lezioni e conferenze. Ce n’era bisogno? Ancora non lo so, ma è pur vero che un luogo d’incontro quasi-fisico e proto-specializzato, in cui arrivi in pochi secondi a partire da qualunque luogo e dove incontri persone intelligenti che dicono cose intelligenti, non è scontato ancora nemmeno nelle grandi città, figuriamoci se vivi alla periferia dell’Impero.

Una lunga premessa, a mo’ di giustificazione per la mia disincantata partecipazione al progetto, mi serve per inquadrare un’iniziativa che è ben ora di comunicare per bene e di cui sono in qualche modo responsabile. Diverso tempo fa raccontavo la tenerezza che mi faceva vedere una persona anziana alle prese con la tecnologia e qualche esperienza in proposito. Ma alla faccia del digital divide, io in questi anni ho continuato a sentire solo storie bellissime: gli ultrasessantenni, quando trovano un motivo concreto di interesse, sono tra i più entusiasti utilizzatori di computer e Internet. I corsi “Web over 60” del Comune di Torino (incrociati ai Webdays del 2005), i pensionati divenuti inaspettati animatori del SampaBlog (lo spiegava qualche settimana fa a Firenze Enrico Sola), i sempre più numerosi blog che raccontano il mondo visto da età importanti (uno per tutti: barbabianca) sono solo alcuni esempi.

Laddove i giovani spesso nicchiano, perdendo la miglior opportunità che questo tempo offre loro per superare le strettoie di accesso alle professioni dei loro sogni, gli anziani al contrario s’entusiasmano. L’unica accortezza è evitare il solito corso su come si accende un computer, che prima o poi ci si arriva, e spiegare semmai che cosa ci si può fare oggi con quell’aggeggio infernale: telefonare gratis a figli o parenti lontani (vederli in faccia, anche), raccontare la propria vita, impegnarsi in attività civiche, fare la spesa e farsela portare a casa, comprare il biglietto del treno, prenotare il posto a teatro e via dicendo. Attività pratiche: fraca botòn, ottieni risultato. Le procedure verranno da sé, un po’ per volta.

Così all’unAcademy, ragionando sull’organizzazione di corsi informali sull’uso di blog e social network, abbiamo pensato questo: perché non costruire un percorso che sia di stimolo a chi ha più di sessant’anni? Certo, farlo su Second Life è in sé una sfida, tanto che la prima serie di incontri – in partenza domani (20 novembre, alle 16) e poi per altri quattro martedì – ci servirà più che altro per prendere le misure: chi riesce ad arrivare nell’aula online (queste le coordinate dentro Second Life) è già sgamato quanto basta per non aver bisogno di un corso su blog, wiki e social network. Ma se riuscissimo a mettere in piedi un circoletto virtuoso, per esempio attivando dinamiche virtuose figli-genitori (più di qualcuno ha detto “ci porto mio padre”, e chissà che non lo faccia davvero) oppure organizzando squadre di volontari che assistano i partecipanti nell’ingresso in Second Life e poi svolgano un ruolo di guide nella parte abitata della Rete, magari potrebbe venirne fuori qualcosa di buono. Nulla che non si possa fare in un qualunque centro sociale cittadino, ma magari non a tutti capita l’occasione giusta.

Per cui l’invito è: spargete la voce, e se conoscete qualcuno che potrebbe essere interessato fate da ponte. Se conoscete o frequentate luoghi online a tema (comunità virtuali, forum della terza età eccetera), diffondete il messaggio; oppure semplicemente lasciate un indirizzo qui sotto nei commenti. Se volete dare una mano e proporvi come volontari, mandate lasciate un cenno a margine del programma del corso o qui sotto. E se, infine, avete più di 60 anni e volete iscrivervi, avete ancora qualche ora di tempo. Non ce lo ordina il medico di fare questa cosa, né nessuno ci si guadagna alcunché (corso e piattaforma sono gratuiti, giova dirlo). Ma se, come spesso diciamo, abbiamo tutti da guadagnare dalla condivisione di nuove esperienze, allora forse questo è un altro modo per seminare opportunità.

Settembre 30 2003

Da quando ho cominciato a usare i computer, avrò avuto dodici anni o poco più, ho provato tenerezza ogni volta che ho visto una persona anziana avvicinarsi alle nuove tecnologie.

Ricordo che da piccolo cercavo di convincere mia nonna a giocare a tombola sul Commodore 64. Lei, che viveva in una città dove non hanno circolato mai nemmeno le automobili, mi guardava stranita, faceva un sorriso di circostanza, stava al gioco per qualche minuto e poi si faceva distrarre dalla prima cosa che le dava occasione di occuparsi d’altro. Di fronte alla mia insistenza, non le restava che provare a spiegarmi con dolcezza come quel gioco per lei fosse fatto di cartoncino (per le cartelle) e fagioli (per coprire i numeri chiamati) e quanto trovasse inutilmente complicato stare a guardare una televisione che faceva tutto da sola.

Non credo che mia nonna abbia mai saputo quanto quelle parole abbiano contribuito a formare il mio rapporto con la tecnologia: da allora, ogni volta che mi trovo di fronte a un produttore entusiasta o a un programmatore eccitato, mi chiedo prima di tutto quanta umanità preservi l’innovazione di turno e quanto spirito di servizio (piuttosto che autocompiacimento o marketing) animi il progetto. Magari qualche cantonata di troppo, in questi anni di tecno-follia, me la sono anche risparmiata.

Ripensavo a tutto questo oggi leggendo di Oreste Del Buono, uno dei primi giornalisti di cui ho imparato a riconoscere la firma. Di Del Buono ricordo una testimonianza pubblicata nel 1996 su quella bella rivista che un tempo è stata Telèma. Scriveva: «Ho cominciato a scrivere a macchina a sei anni, con un’enorme Underwood. Soltanto nel dopoguerra ho acquistato una Olivetti portatile e quando mi sono fatto convincere a prenderne una elettrica me ne sono subito pentito. Non ho più l’età per imparare a usare il computer ma non potrei più vivere senza quel provvidenziale aggeggio che trasmette dovunque e in ogni momento le pagine che scrivo, il fax».

Per qualche strano motivo, sono sempre stato un appassionato lettore di anneddoti di chi, trovandosi a scrivere per mestiere e non più giovanissimo d’età, sia stato travolto dall’innovazione e costretto a confrontarsi con un progresso di cui magari non ha avvertito alcuna esigenza. Un’ineluttabilità di cui è stato sofferto interprete un fedelissimo della Lettera 22 come Indro Montanelli: «Confesso che non ho ancora capito che cosa sia il giornale on line. Immagino che si tratti di qualcosa attinente alla televisione, cioè un giornale non di carta e di parole, ma di video e d’immagini, sul quale la mia opinione muove da un pregiudizio di antipatia corretta dal riconoscimento di una realtà ineluttabile. Questa: che per il giornalismo quale io l’ho appassionatamente amato e praticato non c’è più mercato. Non so cosa sarà mai un giornale on line. So soltanto che non sarà mai il mio giornale, anche se è quello dell’avvenire».

Ci sono anche gli entusiasti come Arrigo Levi: «Io uso il computer nel modo più elementare: come archivio di cose scritte da me, e condivido il rimpianto di altri per non averlo avuto a disposizione tutta la vita (ma chissà come mi orienterei in mezzo a quella foresta di pagine ben conservate!), e come strumento di scrittura. Ora, gli strumenti di scrittura, come gli strumenti di espressione, non sono senza effetto sulla scrittura e su quello che c’è dietro, che è il pensiero. Non so bene come ciò accada, ma so che è così». Aggiunge: «Per questo, e per la sua silenziosità, lo amo».

Oppure Giorgio Bocca, che parla di computer e stampatrici con gratitudine: «Finalmente ho trovato la mia protesi giusta, questa macchina chiamata computer, che ad altri serve a operazioni raffinate e complesse, a viaggi per Internet, a calcoli astronautici e che a me serve solo a cancellare errori di battuta, subito, con poca fatica, che per voi sarà poco o niente ma che per me è una liberazione dall’incubo della scarsa manualità, la liberazione da una fatica continua e crescente».

Infine le note di un arzillo (e temo mai abbastanza riconosciuto) innovatore come Sergio Lepri, che ricorda come «Il passato dell’elettronica è pieno di previsioni mancate o di previsioni sbagliate: l’Olivetti che nel 1969 non si accorge che un suo ingegnere ha inventato il personal computer (molti anni prima degli americani) e decide di rinunziare all’elettronica perché “non c’è mercato”; i giapponesi che spendono anni di studio e miliardi di yen dietro la televisione ad alta definizione, senza prevedere il passaggio dall’analogico al digitale e quindi l’eliminazione del problema; e Internet? sono passati venti anni prima che ci si rendesse conto di che cosa volesse dire, e potesse rappresentare (anche qui nel bene e nel male), la planetaria rete delle reti».

Dice: che vuoi dimostrare? Nulla, solo che a ripensarci mi hanno fatto tenerezza.