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Tag: la parte abitata della rete

Marzo 13 2024

È stato bellissimo, abbiamo combattuto battaglie, eravamo invasi di speranza. Ma ne è poi valsa la pena, mi chiedeva tra le righe stamattina un vecchio amico, gran compagno di precoci avventure digitali, mentre riguardavamo foto di Giuseppe Granieri – che dolorosamente stiamo salutando questa settimana – e degli anni in cui tanti di noi si sono conosciuti e hanno intrecciato progetti di ricerca, di lavoro, a volte di vita.

La domanda è rimasta tra le righe della chat, ma mi ha lasciato stordito a lungo, anche perché risuona col senso di resa che confesso mi ha impressionato ritrovare in tante pur commoventi e affettuose dediche a Giuseppe, un senso di resa manifestato spesso proprio da chi più si è speso e ci ha creduto. È stato bello. Meraviglioso. Abbiamo dato forma insieme a questi spazi sociali. Abbiamo goduto della prossimità con menti purissime e beneficiato della spinta di talenti straordinari. Ma oggi è tutta un’altra cosa, questi spazi non ci somigliano più, non c’entriamo più nulla, se l’è presi il diavolo. Quasi un rimorso d’aver tifato il futuro sbagliato.

La verità, quanto meno la mia, è che abbiamo combattuto la battaglia culturale del secolo e l’abbiamo sostanzialmente perduta, con vittime. Ma i presupposti e gli esiti sono ancora tutti là. Al contrario, crescenti evidenze suggeriscono che molte delle opportunità per cui ci siamo spesi sono infine state colte. Magari con un ritardo ingiustificabile, magari incompiute o difettose, magari inserite nella cornice inadeguata, magari fraintese, però sempre più spesso colte. Non era finita, la battaglia: siamo noi che abbiamo abbandonato il campo. Che non abbiamo saputo adattarci al cambiamento di scala su cui noi stessi mettevamo in guardia gli altri. Che siamo scappati inorriditi quando le masse che sognavamo hanno cominciato a invadere sul serio gli spazi residenziali della rete. Come se avessero dovuto riconoscerci qualche rendita di potere, baciare le mani ai fondatori, chiedere permesso.

Eravamo di nuovo niente e piuttosto che rimboccarci le maniche da capo e provare a indirizzare quel movimento caotico e improvvisamente gigantesco, abbiamo preferito ignorare o peggio deridere i nuovi arrivati. Comunque mollare. Quando il gioco si è fatto vero, quando c’era da tenere la posizione (culturale, molto prima che politica o tecnologica) ce la siamo dati a gambe. Quando il diavolo ha bussato, gli abbiamo aperto e gli abbiamo detto beh, vedi tu se riesci a cavare qualcosa di buono da questo casino. Auguri.

Certo s’era fatta una certa età e dovevamo cominciare a pensare a mantenere noi stessi e le nostre nuove famiglie. L’ebbrezza del progresso nel suo avanzare e la gloria effimera condita di pacche sulle spalle e free drink al barcamp non potevano bastare più, serviva cominciare a remunerare seriamente le nostre competenze, quali che fossero. E su questo piano non abbiamo mai saputo proporre un modello alternativo convincente, c’è poco da fare.

 Chi è rimasto spesso spesso ha accusato le ingiurie degli anni, perché le espressioni di sé di uno sconfitto che abita gli spazi digitali mentre attraversa le crisi della mezza età forse sono ancor più impietose delle rughe sul volto.

Inoltre papà non ha certo giocato pulito con noi. Ricordo sempre quel tale, che considero paradigma della classe dirigente di fine millennio, vantarsi di aver conquistato la propria posizione ammazzando – simbolicamente, s’intende – i suoi padri. E di guardarsi bene dal farsi da parte, finché qualche giovane abbastanza capace e temerario non fosse riuscito nell’impresa di ammazzare lui, sempre simbolicamente. Settantenni e ottantenni ancora sulla cresta dell’onda, abbarbicati con ogni mezzo alla propria posizione di influenza, sostenuti da una rete pavida di convenienze e di interesse, pronti a stroncare sul nascere e a delegittimare ogni idea che possa mettere a repentaglio la conservazione del ruolo. Ho pensato a lungo a quelle parole. È una visione della comunità che sta alla mia come l’acido muriatico sta all’aceto balsamico, ma contiene almeno una verità.

Non siamo stati abbastanza bravi. Avevamo ragione, avevamo gioia, avevamo idee, avevamo spirito civico e senso del nostro tempo, ma non bastava, non basta mai: dovevamo anche dimostrarlo e renderlo talmente evidente e sostenibile da imporlo e travolgere tutti i giochetti più o meno puliti con cui i nostri padri culturali, economici, professionali e politici ci hanno deliberatamente sabotato, rallentato, depistato, sminuendo noi e la portata della visione che offrivamo. Non c’è nulla di biasimevole o ignobile nella sconfitta. Al contrario, la gran parte degli eroi nel mio pantheon personale sono straordinari sconfitti. Ma la sconfitta va riconosciuta e metabolizzata. Noi in fondo non l’abbiamo fatto, ancora. Altrove hanno saputo inseguire compromessi realistici che, un passo alla volta, avvicinassero la società alle opportunità del presente. Altrove sono diventati adulti. Qui in fondo siamo rimasti spesso ragazzini rancorosi, illusi o disillusi a seconda del percorso individuale che ne è seguito. 

Dunque possiamo concludere che non ne è valsa la pena? Io non credo. A pensarci bene è una valutazione che manca di rispetto alla nostra storia, alla sincerità delle nostre intenzioni, alle nostre esplorazioni coraggiose in un mondo ignoto e creativo. Ne è valsa eccome la pena. Ha forgiato la maggior parte di noi, ha forgiato una generazione, ha forgiato un’ideologia, molto più umanistica che tecnologica, che certo ora andrebbe evoluta e messa a punto, ma che avrebbe potuto contribuire a correggere le esasperazioni dell’unica idea occidentale di società ancora in circolazione, con l’eccezione forse dei movimenti neo-ambientalisti, ovvero la società dei processi di massa e del consumismo. Per di più nel suo momento più pericoloso: il declino. Non ne abbiamo giovato? Siamo rimasti precari irrisolti senza certezza del futuro? Può essere, ma è il destino che a un certo punto ci siamo scelti, e io anche nei giorni di maggior sconforto non riesco proprio a rinnegarlo.

È importante che cominciamo a dirci queste cose sia per fare i conti col nostro passato sia perché un nuovo salto di paradigma, ancor più gigantesco, ci sta investendo. L’intelligenza artificiale promette di fare al sistema operativo della società quello che già gli ha fatto internet, solo in un ordine di magnitudine superiore. Auspicabilmente porterà con sé anche una nuova generazione di pionieri ed entusiasti sperimentatori, che mi aspetto stavolta possa trovare alleati nella nostra. Ma se neghiamo perfino di essere stati quello che siamo stati, se rinneghiamo le nostre origini, se non viviamo l’orgoglio del testimone da passare avanti a qualcuno che magari avrà più chance di noi di riuscire nell’impresa di risolvere i grandi problemi delle nostre comunità, finiremo per diventare anche noi padri rancorosi e ostili. Senza nemmeno le rendite di potere a giustificazione.



Settembre 19 2014

Giovedì mattina a Pordenonelegge dovevo moderare un incontro sulla democrazia digitale di cui era protagonista Fabio Chiusi. Come avviene di solito nei festival, fuori dalla sala c’era un banchetto con in vendita i libri degli autori. Mi aspettavo di trovare Giornalismo e nuovi media, l’ultimo dei miei libri stampati su carta. Invece c’era La parte abitata della rete, forse il testo a cui sono più affezionato, uscito nel 2007. Strano, dico al libraio, lo sapevo ormai introvabile.  Strana anche la copertina, insisto, d’un cartoncino lucido e leggero che non ricordavo. È toccato al colophon dirmi la novità: il libro è andato in ristampa, la seconda, proprio in queste settimane. Si vede che non si usa più avvertire l’autore.

La notizia mi ha da un lato inquietato (dopo sette anni che cos’avrà mai da dire un libro che parla della rete avanti Facebook, se non testimoniarne la preistoria?) e dall’altro emozionato (dopo sette anni dalla pubblicazione è ancora tra i piedi, quel dannato libretto!). Ancor più emozionante è stato leggere su Facebook, dove d’istinto ho condiviso la mia sorpresa, i commenti di chi a suo tempo l’aveva apprezzato. Qui, per festeggiare, le prime pagine di La parte abitata della rete.

§

Ho preso la residenza nella parte abitata di Internet per la prima volta nel 1996, al 6272 del lungocosta di SouthBeach, dentro Geocities. Geocities era un servizio che permetteva di aprire pagine Web amatoriali, uno dei primi dedicati a quanti entravano nel Web con la velleità di costruire un ambiente in cui tutti erano nello stesso tempo autori e lettori di contenuti. A metà degli anni ’90, Geocities era diviso in città e in vicinati: il mio aveva la fama di un luogo dove ritrovarsi e chiacchierare senza impegno, ma c’erano quartieri per gli hobby e gli interessi più in voga: dalla politica (Capitol Hill) alle scienze (Cape Canaveral), dalla musica classica (Vienna) agli stili di vita alternativi (West Hollywood), dalle collezioni di fumetti giapponesi (Tokio) agli sport estremi (Pipeline), e perfino un parco giochi riservato ai bambini (Enchanted Forest).

Geocities riproduceva sull’allora giovanissimo World Wide Web alcune metafore di tipo geografico e sociale legate alla vita reale. Oggi potremmo definirle ingenue, se non tenessimo conto del fatto che dieci anni fa Internet era un ambiente nuovo e sconosciuto, quanto meno al di fuori dei circoli accademici e scientifici. L’analogia con la realtà era un primo, efficace strumento per esplorarlo: ogni vicinato era composto da una strada che collegava tra loro le costruzioni, a ciascuna delle quali corrispondeva la pagina personale di un iscritto identificata da un numero civico progressivo. Le villette di Geocities erano punti di presenza dei pionieri della Rete e il primo tentativo, necessariamente immaturo, di mettere in connessione i contenuti di tutti attraverso contesti arbitrari e tuttavia intuitivi.

Nel 1998 i fornitori di accesso a Internet gettavano le fondamenta di quelle che sarebbero diventate le prime città di Internet. Erano posti strani, con tante vie d’entrata, ma pochi modi per andarsene. Ti invitavano a trasferirti da loro regalandoti un po’ più di spazio, laddove le esigenze crescevano e il mercato degli affitti andava rincarando. Accettai, abbandonando a malincuore Geocities, che dal canto suo cominciava a trasformarsi lentamente in qualcosa di più asettico e funzionale agli interessi dei neonati portali. Il mio domicilio, che ospitava una breve biografia e qualche dettaglio sui miei hobby, diventò una sequenza di lettere poco affascinante e imposta dal provider (space.tin.it/io/smaistr), in cui – dato un nome-utente poco leggibile, definito automaticamente dal sistema – si poteva scegliere soltanto la sottocategoria che avrebbe suggerito al visitatore il taglio del sito: viaggi, arte, salute eccetera. Non trovandomi a mio agio in nessuna classificazione a priori, scelsi la più generica e personale: io.

Dalla finestra di quel monolocale piccolo e poco ospitale ho visto passare una dopo l’altra le tempeste di quel periodo di follia collettiva passato alla storia come new economy: buona parte dell’architettura autoctona del Web – fatta di esperimenti, di presenze individuali e di connessioni ancora molto simili a quelle sperimentate nelle Bbs – venne travolta dalle nuove metropoli dei contenuti commerciali e industriali, che attiravano le energie migliori e dimenticavano la vocazione più autentica di Internet. Portali e comunità virtuali creati a tavolino per ottimizzare i costi e massimizzare il numero di accessi imponevano sensibilità e strutture mutuate dal mondo dei mezzi di comunicazione di massa. Ogni muro disponibile veniva riempito di marchi e cartelloni pubblicitari. Si stava costruendo la nuova televisione: altrettanto generalista, livellata verso il basso e passiva di quella tradizionale, sebbene il telecomando fosse più complicato. Doveva far ricchi tutti, Internet, e per alcuni anni andò davvero così. Ma non durò a lungo, e lasciò dietro di sé pessimismo e crisi di creatività, insieme all’idea che per fare qualcosa di buono sarebbero serviti comunque tanti soldi.

A partire dal 2000 si sparse la voce che, lontano da queste metropoli sempre più depresse, le periferie si andavano popolando. Rustici di campagna e villini in collina venivano resi interessanti da una tecnologia che permetteva a chiunque di metter su pareti e mobilio senza la necessità di ricorrere ad architetti, ingegneri, arredatori, muratori e carpentieri. Erano gli embrioni di ciò che oggi chiamiamo weblog, sistemi di pubblicazione personale economici in virtù dei quali l’autore non ha più necessità di perdere tempo a comprendere la tecnologia, ma può concentrarsi sui contenuti. Racconta Eloisa Di Rocco:

Era il classico quartiere dove non ci si viene a fare niente, il quartiere che ha senso solo per chi ci abita. Che non ha nessun secondo fine se non quello di essere usato per il suo scopo. […] Il quartiere che nessuna guida turistica, nessun quotidiano fuori dalla pagina di cronaca, nessun giornaletto alternativo stampato su carta riciclata e distribuito gratis nella metropolitana nomina mai. Lì c’è solo gente comune che vive. Esce, va al supermercato, si ferma ai semafori, parcheggia in garage, compra i fiori all’angolo, va alla scuola di fronte, prende l’autobus sulla via grande, si incontra al bar, sul muretto, sulla piazzetta. In un quartiere così ci capitano tutti per caso.

Divenne un’alternativa sempre più concreta rispetto alle esasperazioni commerciali di Internet, il luogo della rifondazione di ideali originari di libertà, creatività, condivisione e collaborazione. Un numero inaspettato di persone ci si stabilì in via definitiva, rimboccandosi le maniche per alimentare uno straordinario quanto improvvisato esperimento di ingegneria sociale mediato dalla rete di comunicazione. Io ci sono capitato diverse volte per lavoro, per studiare quello che stava succedendo e raccontarlo in città: nel 2003 ero ormai talmente affascinato da quanto vedevo che mi ci sono trasferito a mia volta. Vinte le ultime diffidenze da artigiano del web, che ama costruire a mano le pagine dominando quel poco di codice Html conosciuto, ho colonizzato un indirizzo che ora porta il mio nome (www.sergiomaistrello.it) e che da allora raccoglie quanto di più significativo concerne la mia vita personale e lavorativa. Ogni pagina di questo libro nasce da ciò che è successo in seguito e da ciò che ho imparato come cittadino di quel quartiere appena fuori città.

[Tratto da La parte abitata della rete, Tecniche Nuove, 2007]

Febbraio 28 2008

Una buona notizia dall’editore: a un anno giusto dalla sua uscita, La parte abitata della Rete va in ristampa, che la prima tiratura è andata esaurita. Ne approfitto per ringraziare tutti voi che l’avete letto, apprezzato, commentato, prestato, regalato, consigliato – in una parola: gli avete dato vita. Ho scritto quel libro pensando soprattutto a chi non ha ancora familiarità con Internet, ma curiosamente sta ottenendo riscontri soprattutto da parte di chi già vive e lavora in Rete: chissà che queste nuove scorte non riescano a spingersi là dove spiegare quanto di buono sta accadendo grazie a Internet sembra più difficile.

Già che ci siamo, aggiungo che sta invece concludendo il suo ciclo di vita il buon vecchio Come si fa un blog, di fatto già introvabile da qualche tempo in libreria. Per essere un libro del 2004 – e di taglio piuttosto pratico, dunque legato a strumenti e pratiche che nel frattempo si sono evolute parecchio – ha avuto una vita sorprendentemente lunga. Tanto che oggi ricevo quasi più richieste e commenti di quando è uscito. Mi è stato chiesto più volte di aggiornarlo, ma per me l’aggiornamento che avrei potuto scrivere esiste già ed è appunto La parte abitata della Rete. In compenso sto cercando di convincere l’editore a non chiuderlo in un cassetto, facoltà che contrattualmente gli compete, ma a lasciarlo in qualche modo a disposizione in versione elettronica per quanti ancora hanno voglia o necessità di consultarlo.

Settembre 24 2007

Pordenone 2.0

Pordenonelegge.it, la parte abitata della Rete/1

Rubo il titolo a Paolo, che ha condiviso con me una felice mattina di fine estate a Pordenonelegge.it. L’incontro che, col prestesto del libro, voleva parlare di opportunità in Internet per città e cittadini è stato soprendentemente intenso e decisamente piacevole. Come quasi sempre accade in questi casi, la differenza non la fa chi sta sul palco, ma chi ascolta. E poche volte mi è capitato un pubblico così attento, non facile all’entusiasmo, ma pronto a capire e a discutere. Sono piacevolmente sorpreso che questo sia accaduto nella mia città e nella cornice di quell’evento bibliofilo e tecnologicamente timido che per tante edizioni mi ha visto seduto nella platea delle stesse sale.

Difficile riportare tutto quello che è stato detto. Anche perché molto aveva a che fare con i progetti che il Comune di Pordenone sta cercando di realizzare nella parte abitata della Rete (rete WiFi gratuita e social networking, benedetti e finanziati dalla giunta Illy – di questo riparleremo, prima o poi). Ma due passaggi mi sono rimasti bene impressi.

Il primo è stata la risposta oltremodo franca che l’assessore comunale Gianni Zanolin, nostro ospite e motore della locale e-democracy, ha riservato a chi gli chiedeva del destino dei partiti in questo nuovo scenario internettoso e partecipato. Non hanno molto futuro, ha detto a titolo del tutto personale, e non tanto perché si voglia rinnegare la rappresentanza nelle sue manifestazioni tradizionali, ma perché la rappresentanza sta assumendo forme e tempi e interazioni del tutto nuove. Come a dire: non puoi più vivere cinque anni del voto di un momento, è necessario condividere le scelte più importanti, così come è possibile negoziare giorno per giorno la distribuzione delle responsabilità.

A volte, sulla via dell’innovazione digitale, quel che aspetti di sentir dire ai vertici istituzionali nazionali  succede invece di ascoltarlo nell’assessorato sotto casa.

Il secondo passaggio è stato l’intervento con cui una persona del pubblico ha, inconsapevolmente, tirato le conclusioni di quanto andavamo dicendo da un paio d’ore. E, su per giù, suonava così: dunque qui stiamo parlando di responsabilità. Finora potevamo addurre alibi per la nostra inattività, per il nostro lasciare che le cose andassero come andavano. Oggi no, abbiamo l’occasione e abbiamo lo strumento. Abbiamo la responsabilità – come prima, ma senza più alcuna scusa – del modo in cui vanno le cose.

Non c’era molto altro da aggiungere, no?

Settembre 13 2007

Di rientro dal rilassante RomagnaCamp, già si profila all’orizzonte lo sportivo GhiradaCamp. Benché straordinariamente vicino a casa, difficilmente potrò essere a Treviso in quei giorni (22/23 settembre). Le date infatti coincidono malauguratamente col weekend di Pordenonelegge.it, la festa del libro con gli autori, che è diventata uno dei pochi momenti dell’anno in cui vivere a Pordenone pone l’imbarazzo nello scegliere come riempire il proprio tempo libero. Dopo aver saltato le ultime tre edizioni a causa di trasferte di lavoro, quest’anno non solo sono intenzionato a seguire tutto il seguibile, ma mi è stato pure offerto un angolino di festa per presentare in patria La parte abitata della Rete.

Dunque per chi fosse interessato, l’appuntamento è per sabato 22 settembre alle 11.30 a Palazzo Gregoris (corso Vittorio Emanuele II 44, nel centro storico della città). Ospiti dell’assessorato alle politiche sociali, con cui ho collaborato di recente alla definizione di alcune strategie locali di e-democracy, approfondiremo in particolare le opportunità che Internet offre alle città e ai cittadini, beninteso che essere cittadini della Rete mal si presta al banale rispetto dei tradizionali confini territoriali.

Mi farà compagnia, insieme all’assessore comunale Giovanni Zanolin, il buon Paolo Valdemarin, che io insisto a indicare non solo tra gli sviluppatori di idee digitali fra i più aggiornati e collaborativi al mondo, ma soprattutto come divulgatore di opportunità in Rete come ne abbiamo pochi in Italia. Benché l’evento che ci concede spazio tenda a stritolare gli argomenti meno letterari (e di Internet in particolare non si parla più da quando ci si mise d’impegno Giulio Mozzi, credo), potrebbe essere quanto meno una piacevole occasione per aprire un dibattito con chi in zona si occupa di reti sociali e dintorni.

Luglio 17 2007

Nel giugno scorso ho partecipato a Intermediando, piacevole parentesi di studio e approfondimento sulla comunicazione e sui media organizzata da NetOne dentro un’oasi di verde e pace alle porte di Roma. La serata che il seminario internazionale dedicò a La parte abitata della Rete fu molto piacevole, grazie a un pubblico particolarmente accogliente e a una splendida Luisa Carrada, che si prese la briga di animare il dibattito (facendomi arrossire in più occasioni).

Di quella serata passata in una sala a due passi dalla pista di atterraggio dell’aeroporto di Ciampino esiste un filmato integrale, che ora è disponibile anche su YouTube. Come accade in questi casi, lo metto agli atti.

Giugno 26 2007

Tra le 13.35 e le 13.55 sono ospite (telefonico) di Marco BoscoloPigreco, trasmissione di divulgazione scientifica di Radio Città del Capo, radio metropolitana di Bologna. Si parla di Web 2.0, blog, social network: in altre parole, la parte abitata della Rete. Chi non abita in provincia di Bologna, Modena o Ferrara (dove la radio si ascolta sui 94.7 FM) può comunque ascoltare Radio Città del Capo anche in webcasting (dal menu in alto a destra sul sito dell’emittente).

Aggiornamento: è disponibile il podcast della trasmissione.

Giugno 16 2007

Lunedì sera (18 giugno) sono ospite di NetOne, nell’ambito del seminario internazionale di creatività e comunicazione Intermediando (qui il programma della settimana). La mia “lezione” sui temi del libro è diventato per volontà degli organizzatori – e ringrazio in particolare Maria Rosa Logozzo e Marcello Cerruti – un incontro pubblico aperto a tutti, con tanto di diretta web. Luisa Carrada mi fa un doppio regalo: sapevo che avrebbe partecipato, sono onorato che abbia accettato di condurre la serata. Saremo a Ciampino in via Doganale 1 (mappa); si comincia alle 20.30. Chi non può essere presente in carne e ossa troverà sul sito di NetOne le istruzioni per seguirci via Internet.

Aggiornamento: l’indirizzo per vedere la diretta web dovrebbe essere questo: http://easylink.playstream.com/winlive/stream.wvx. Richiede Windows Media o comunque un lettore di file Wvx (su Mac si può utilizzare Windows Media Component for QuickTime, evidentemente avendo già installato Quicktime). Registrandosi su NetOne è possibile partecipare anche alla chat e interagire con la sala dell’incontro. Ad ogni modo, tenete presente il sito degli organizzatori per aggiornamenti o indicazioni specifiche.

Maggio 7 2007

Appuntamento confermato, dunque, mercoledì sera (9 maggio) alle 18 alla Libreria Hoepli di Milano, zona Duomo (mappa). Ci troviamo a fare quattro chiacchiere sul libro con Luca Sofri e Tommaso Labranca (bontà loro). Per rispondere alle domande più frequenti raccolte finora: sì, l’entrata è libera e tutti sono benvenuti (e ci mancherebbe altro!); e boh, non ho idea se sia previsto un rinfresco, ma metterò una buona parola in proposito. Chi vuole può scaricare e stampare l’invito, ma è soltanto un promemoria, nessuno controllerà all’ingresso.

Ci sarai?

Aprile 27 2007

Il sole si è alzato che il treno su cui sto viaggiando si avvicinava a Treviso, profondo Veneto. Oggi sarò a Savona, dall’altro lato di Italia, ospite del campus universitario locale. Incontrerò i partecipanti al Master in Programmazione e Produzione Radiofonica e Televisiva, ai quali credo che confermerò la cattiva notizia portata loro qualche giorno fa da Fabio Fazio (la professione che vogliono fare loro probabilmente è congestionata e senza sbocchi a breve scadenza), ma ne aggiungerò una buona (Internet è la miglior palestra oggi disponibile per mettere alla prova il proprio talento).

Alle 18 l’incontro diventa pubblico: insieme a Marco Formento, giornalista de Il Secolo XIX e una delle anime dello ZenaCamp, parleremo di parte abitata della Rete e BarCamp. Entrambi gli incontri si devono alla passione e alla determinazione di Roberta Milano, che sarò felice di conoscere finalmente di persona.

Domani, sulla via del ritorno, faccio sosta per qualche ora a Genova per mangiare la focaccia. Oh, certo, e per salutare tutti allo ZenaCamp.

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