Questa sera ho dato ufficialmente inizio alla stagione dei concerti estivi con quello che dovrebbe essere il mio settimo concerto di Eugenio Finardi.
Per la non comune sensibilità di autore e la raffinatezza delle interpretazioni, Finardi è forse l’unico artista che seguo incondizionatamente da una quindicina d’anni e che cerco di non perdere mai dal vivo quando tiene un concerto entro una cinquantina di chilometri dal luogo in cui mi trovo. Fra i sette, quello di oggi è stato tra i migliori dai tempi del tour acustico nei teatri dei primi anni ’90. Nulla di particolarmente nuovo, in effetti, ma una buona sintesi del lavoro recente che ha come pretesto l’originale esperimento di Cinquantanni, l’album del 2002 in cui ha recuperato e riarrangiato alcune canzoni poco note del suo repertorio anni ’70 e ’80.
In gran forma e con una voce sempre più calda e ricca di sfumature, Finardi riunisce in questa serie di concerti alcuni dei suoi successi storici, i gioielli appena riscoperti, ma anche echi del progetto Il silenzio e lo spirito (con cui nel dicembre scorso ha preso parte alla rassegna La Musica dei Cieli), dell’ormai storico tour Acustica e dell’esperienza essenziale e basata sull’improvvisazione dei concerti in trio dello scorso anno. Più ampia, ma non necessariamente meno acustica, la formazione che lo accompagna: alle chitarre di Francesco Saverio Porciello e alle tastiere di Vincenzo Muré si uniscono in questo caso anche batteria e (contrab-)basso.
Piacevole sorpresa della serata di oggi ad Arese (dove la minaccia del maltempo ha spinto gli organizzatori a rinunciare alla cornice della settecentesca Villa Ricotti per il più tradizionale cinema-teatro) è stata l’escursione nel troppo presto dimenticato album Occhi del 1996, da cui Finardi ha rispolverato la bellissima Un uomo (oltre alla più frequente cover Uno di noi). Segno forse che i conti con quel periodo, artisticamente e umanamente impegnativo, sono definitivamente chiusi ed è giunto il momento di riscoprire a piccole dosi alcuni gioielli perduti.
È interessante la rilettura energica ma più acustica che in passato di Soweto, mentre stupisce la ritrosia nell’inserire in scaletta quel capolavoro di attualità che è Afghanistan (anno 1975, rispolverata in Cinquantanni). Per chi non lo avesse ancora sentito cantare il classico di Gershwin Summertime, infine, la sua rivisitazione blues – ancor più incisiva che nel tour Acustica – è un raro gioiello di interpretazione.
Nel complesso, un concerto affascinante e la garanzia di due ore di ottima musica per chiunque non abbia familiarità con le canzoni di Finardi. I fan più accaniti, invece, potrebbero restare perplessi per la perdita di una nuova occasione per proporre un concerto ancor più coraggioso nel taglio e nel repertorio, a maggior ragione avendo le spalle coperte da un disco che coraggioso lo è stato davvero. Tuttavia non potranno non apprezzare la sensazione di trovarsi di fronte a un cantautore ritrovato per vivacità e ispirazione artistica.
Andatelo a sentire, se vi capita.