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Category: Dico la mia

Ottobre 23 2010

La guerra giusta, le bombe intelligenti e tutte le altre menzogne retoriche. Quando, sul ciglio della disgraziata guerra in Iraq, qualcuno alzava la voce per ricordare che nei conflitti contemporanei il 90% delle vittime sono civili, veniva messo a tacere e sbeffeggiato dagli zelanti portavoce della coalizione dei volonterosi. Oggi sappiamo che erano questi ultimi ad avere ragione: in effetti le vittime civili in Iraq non sono il 90%, sono soltanto il 60%. Saranno soddisfatti.

Ottobre 10 2010

Uno dei motivi per cui non amo molto la politica (in realtà la realpolitik) è la straordinaria mutevolezza del contesto. Mutevolezza in virtù della quale un anno fa – come ogni anno dal 2005 in poi, solo in modo più organizzato – un manipolo di persone competenti sottopose a governo e parlamento l’urgenza di non rinnovare oltre la malaugurata legge Pisanu e ricevette in risposta nella migliore delle ipotesi pernacchie e nella peggiore sbadigli indifferenti. Mentre oggi che l’argomento è divenuto strumento inaspettato di convergenze strategiche aliene alla visione tecnosociale del Paese dobbiamo improvvisamente sorbirci le ispirate prese di posizione dei personaggi più in vista sulla necessità di recuperare il tempo perduto e di imboccare con decisione la via del WiFi libero. È tutta gente che, in occasioni e momenti diversi, avrebbe potuto fare la sua parte per evitare che nel frattempo diventassimo uno dei Paesi meno contemporanei dell’Occidente e non l’ha voluta o saputa fare. Pur che sia, ci berremo anche tutto questo. Però spero sia chiaro anche a loro stessi: non sono affatto credibili.

Agosto 16 2010

Nell’ultimo paio di mesi ho giocato con Facebook un po’ più del solito, col desiderio di mettere a fuoco oltre agli innegabili motivi di interesse (un contenitore sociale da 500 milioni di persone è interessante per definizione) anche i motivi per cui questo social network continua a essermi spesso, nonostante tutto, indigesto. Naturalmente l’ho osservato con gli occhi di chi è già abituato alla condivisione e all’espressione online, immagino che questo vizi in partenza lo sguardo. Un po’ per volta sto cominciando a dare il nome ad alcune sensazioni che mi mettono spesso a disagio. Nulla di tale, per ora, solo appunti in corso d’opera e che condivido nel caso qualcuno avesse da aggiungere o ribattere.

  • Facebook non ha memoria. Non ha il valore della memoria, l’interesse di conservarla e valorizzarla. Puoi scorrere e scorrere e scorrere i contenuti di una bacheca, ma il contenitore è fatto sostanzialmente per il qui e ora. Premia e valorizza in modo eccellente la socialità d’istinto, scoraggia la conoscenza profonda. Se vuoi ritrovare un contenuto di qualche settimana o mese prima non hai che da scorrere per ore, nessuna scorciatoia ti assiste. Lo stesso motore di ricerca interno è più focalizzato sul reperimento di persone, piuttosto che di contenuti, e ha ampie zone di ombra che non sembrano nemmeno indicizzate). Questo è interessante, perché al contrario delle forme di socialità digitale preesistenti (nei blog, ma anche in molti social network ancora popolari) sulla memoria si fondano, per esempio, l’identità e la reputazione. Facebook favorisce come nessuna comunità web in precedenza l’uso del nome e cognome, ma non la costruzione di una storia pubblica e condivisa dei suoi utenti.
  • Facebook regge a fatica la scalabilità dei gruppi sociali. Benché faccia notizia soprattutto per gli alti numeri di aderenti a cause comuni di ogni genere, più il numero di partecipanti a un gruppo, a una pagina o a un profilo personale diventa elevato, più facile è perdere il filo (anche in virtù di quanto detto a proposito sulla memoria). Maggiore è la partecipazione, più difficile è che ci sia un reale confronto e una possibilità di sintesi. Anche nei gruppi di protesta più nutriti le persone parlano spesso da sole o in gruppetti molto ristretti, come se effettivamente si trovassero per strada durante una manifestazione di massa. Facebook è adeguato per gruppi contenuti oppure gruppi ampi ma composti da persone molto ben educate all’espressione in spazi sociali digitali (e dunque sintetiche, rispettose del contesto e sensibili allo scopo, prima ancora che all’espressione di sé). Più spesso, Facebook incoraggia le leadership e la creazione verticale del consenso, facendo fare al web reticolare un passo indietro verso la gerarchia.
  • Facebook costringe chi lo usa ad adeguarsi alla sua logica. Vale per tutti i social software, ma nel caso di Facebook si tratta di una logica particolarmente rigida e macchinosa. Quasi nulla si può trasformare: puoi creare oppure cancellare, non riusare, trasferire, evolvere. Se apri un “profilo” senza sapere che associazioni o aziende o marchi dovrebbero usare lo spazio “pagina”, se hai raggiunto il limite massimo di contatti, se la natura del tuo spazio s’è evoluta, puoi solo adeguarti ai limiti imposti dal servizio oppure ricominciare tutto da capo. Ricominciare da capo significa però ricostruire da zero la rete sociale, che è un po’ come cambiare acquario dovendolo riempire con un bicchierino da liquore. Oppure mantenere due o più acquari contemporaneamente. Non c’è un modello di base con una serie di etichette interscambiabili, ci sono invece percorsi obbligati pensati su entità generiche e standardizzate, che non aderiscono quasi mai con le peculiarità del caso specifico e che una volta imboccati non possono essere più rimessi in discussione. Sono scelte legittime di gestione del servizio ed evidentemente sono scelte che non turbano buona parte dei milioni di iscritti. Eppure l’ipertesto sociale ci ha abituati ad avere sempre una via d’uscita, mentre navigando in Facebook si ha spesso l’impressione di imbattersi in vicoli ciechi.
  • Facebook si spiega male. Le poche impostazioni che un iscritto può adeguare ai propri desideri (i famigerati controlli sulla visibilità dei contenuti e sulla privacy delle informazioni condivise, per esempio) sono quanto di più macchinoso, non univoco e inusabile si sia visto sul pianeta social networking, nonostante ci abbiano rimesso le mani più volte. Benché tu faccia scelte consapevoli, una volta chiusa la pagina ad hoc sei già lì che ti chiedi in fin dei conti chi può vedere che cosa tra i tuoi amici, gli amici dei tuoi amici e il resto del mondo. E anche quando credi di aver adeguato tutto al tuo personale stile di condivisione, scopri che una certa tua foto non si vede perché è sì un’immagine, ma caricata dal cellulare e dunque appartiene a un sottoramo di scelte a cui non avevi prestato sufficiente attenzione. Il pannello di controllo delle personalizzazioni è disperso in almeno tre ambiti differenti: non so voi, ma io comincio sempre dal link sbagliato. Penso spesso di non essere completamente in target rispetto alle aspettative ideali di Facebook, eppure mi chiedo quanti si sentano effettivamente a loro agio con i controlli (e con la disposizione dei controlli) che questa piattaforma mette a disposizione.

Post scriptum. Curiosa coincidenza, nel momento in cui ho terminato di scrivere questo testo l’aggregatore mi ha proposto quest’articolo, Perché Facebook non ci piace, dal quale emerge che Facebook è sì popolarissimo, ma è considerato al tempo stesso una piattaforma poco soddisfacente. Mi sembra un segnale interessante. Il punto per me resta, tuttavia, non tanto capire se Facebook ci piaccia o meno, ma perché e in quale misura Facebook sia differente dai social media che l’hanno preceduto, perché ottenga tanto successo (oltre al motivo più scontato: ha superato la massa critica, ci sono le persone, le persone vanno dove trovano altre persone) e quali conseguenze tutto ciò comporti sulla costruzione e sull’evoluzione della nostra socialità online.

Agosto 13 2010

Lui scrive di getto, dal cellulare, senza cura per la punteggiatura e senza rispetto per il lettore. Ne esce un pensiero faticoso e poco chiaro, di quelli che pur volendo essere assertivi ti lasciano alcuni punti di domanda. Lei glielo fa notare: non potresti essere più chiaro? Lui risponde: dal cellulare va così, mi passa la voglia di trovare le virgole e se ragionassi di più mentre scrivo perderei di efficacia. Scorrendo innocenti aggiornamenti estivi su Facebook mi si accende una lampadina. È proprio così che facciamo: quando abbiamo torto marcio difendiamo le nostre ragioni con sprezzo della vergogna che dovrebbe serrarci la bocca e invece rispondiamo con la supponenza delle nostre condizioni soggettive elette a criterio universale di giudizio e di giustificazione. Non rispettiamo più le regole del gioco: abbiamo abbandonato il campo neutro, ci siamo ritirati nel nostro cortile. Ognuno contro tutti gli altri, ognuno secondo ordini differenti e autoindulgenti.

Giugno 4 2010

Credo accada un po’ a tutti noi che “viviamo online” da un numero ormai ragguardevole di anni. Molti tra i miei più cari amici, che pure seguono da anni quello che faccio per lavoro e hanno una copia dei miei libri in casa, hanno sempre sdegnosamente ignorato il mondo dei blog e della condivisione in rete. Fino a Facebook. Dentro Facebook, per una serie di motivi che non ho ancora del tutto messo a fuoco, ci si sono tuffati senza alcuna remora o prudenza. Ora sono loro i fanatici della condivisione, ben più di me. Sono loro che segnalano a me le pratiche e gli strumenti che io a suo tempo proponevo loro. Perfino chi non condivideva la mia serenità nel mostrare in rete le foto di mio figlio che cresce oggi è il più incallito tra i dispensatori di aneddoti sulla propria famiglia. Al punto che non pubblicano più soltanto le immagini dei propri figli, ma anche dei miei figli. E non pubblicano solo le loro foto, ma anche le mie foto. Tanto lo fai già tu, mi rispondono: è vero, ma in modi che poi io posso gestire e controllare direttamente e comunque all’interno delle mie reti sociali.

C’è un aspetto che mi rende felice, in tutto questo: sono arrivati a ciò che a suo tempo proponevo loro attraverso i propri percorsi personali, e questo è un bene. Ma c’è un aspetto che mi spaventa: ci sono milioni di persone, là fuori, che pensano di guidare un triciclo al parco giochi e non si rendono conto di essere invece al volante di un bolide in autostrada. Possono farsi male e possono fare del male agli altri. Nella più assoluta buona fede, sono inconsapevoli della dimensione in cui stanno operando e delle ripercussioni delle loro azioni sociali. Strumenti come Facebook richiedono ai loro utenti di maturare in pochi giorni un’alfabetizzazione alla socialità digitale che noi più fortunati pionieri della socialità digitale abbiamo invece avuto modo di sviluppare nel corso degli anni.

Non c’è alcun merito nell’essere arrivati prima, non è questo il punto. Il punto è che pensavo bastassero generosi dosi di buon senso, ma alla prova dei fatti o il buon senso è un bene particolarmente scarso in natura oppure semplicemente non è sufficiente. E, nella faglia culturale che ormai divide le istituzioni deputate (famiglie, scuole, amministrazioni pubbliche, luoghi di condivisione di esperienza) dal mondo contemporaneo, io continuo a vedere fior di professionisti mettere la faccia su opinioni formulate in modo diffamatorio, ingiurioso, violento; ragazzini sputtanarsi la propria reputazione personale e professionale prima ancora di aver cominciato a metterla in gioco; intimità messe in piazza senza il minimo filtro. A me sta bene tutto, sono un sostenitore della prima ora della possibilità per chiunque di mettersi in gioco liberamente, raggiungendo la piena espressione della propria personalità e del proprio talento. Penso che, comunque vada, sarà più il bene che ne verrà. L’unico cruccio che mi faccio è che diventi al più presto per tutti una scelta consapevole, informata, digerita riguardo alle implicazioni di ciò che si sta facendo.

Io detesto i decaloghi. E detesto due volte quelli che mettono in guardia dai rischi del mondo digitale. Ma da tempo ne rimugino uno, che metto nero su bianco in una sua beta ancora tutta da rodare. L’ho pensato per i miei amici, ma magari può essere utile anche a qualcun altro:

  1. Sii consapevole che tutto quello che scrivi e che condividi riguardo a te e ai tuoi amici potrebbe sfuggire al tuo controllo. Dentro ambienti come Facebook, il tuo controllo sui contenuti finisce sostanzialmente nel momento in cui pubblichi un contenuto. Non è sempre così, ma sii preparato al fatto che potrebbe anche essere così.
  2. Sii consapevole che potresti essere chiamato a rispondere di qualunque cosa tu abbia scritto o condiviso, anche molto tempo dopo che l’hai pubblicata. I reati esistono anche dentro internet e sono gli stessi che regolano qualunque convivenza sociale: passato lo spaesamento per la novità dell’ambiente, le querele aumenteranno.
  3. E nel caso ti rimanesse il dubbio: no, anche se non ti firmi con nome e cognome dentro internet non sei mai del tutto anonimo. Ogni tua azione lascia tracce a qualche livello. Se necessario, può essere più facile di quanto tu creda risalire alla tua identità.
  4. La differenza tra l’espressione legittima delle tue idee e l’ingiuria o la diffamazione è spesso soltanto una questione di formulazione del pensiero e di stile nel confezionarlo. Puoi pensare che Tizio sia un cretino, ma non puoi dargli semplicemente del cretino. La libertà di opinione e di espressione non implica la libertà di insulto. Questa non è educazione a internet, questa è educazione civica.
  5. Sii lungimirante: se pensi che un contenuto, tolto dal suo contesto originale, un giorno potrebbe nuocere a te o alle altre persone coinvolte, evita di pubblicarlo. Tieni sempre in mente il fatto che stai giocando con la reputazione e la dignità tua, dei tuoi amici e di tutte le persone con cui ti capita di interagire.
  6. Non pubblicare o condividere mai nulla che riguardi anche altri senza avere l’esplicito consenso di tutte persone coinvolte. Ci sono persone che non gradiscono affatto che in rete circolino le loro foto o si parli di loro ed è giusto rispettare la loro sensibilità: non sono loro a dover manifestare la loro preferenza a pubblicazione avvenuta, sei tu che devi verificarla preventivamente. L’attenzione deve essere ancora maggiore quando i contenuti riguardano minorenni, a maggior ragione se non si tratta dei propri figli.
  7. Assicurati di essere legittimato a pubblicare contenuti che non siano prodotti da te: se pubblichi foto di altre persone devi avere il loro consenso, altrimenti ti stai appropriando di una creazione intellettuale altrui. Se vuoi rilanciare un contenuto che ti è piaciuto molto, un estratto con un link alla fonte originaria è altrettanto efficace e molto più rispettoso del funzionamento di internet.
  8. Se decidi di rilanciare appelli, campagne di opinione e altri contenuti “virali” assicurati di non contribuire alla propagazione di bufale o di palesi falsità. Più un contenuto è soprendente e basato su presupposti emotivi più è probabile che sia artefatto, superficiale o disonesto: condividendolo ne sottoscrivi implicitamente i limiti e i fini. Se contribuisci a diffondere falsità e bufale manifesti platealmente la tua ignoranza (e gli altri sono autorizzati a fartelo notare). La rete offre molti strumenti per fare verifiche preventive, usali.
  9. Sei nodo in una rete, anello in una catena. Ogni tua azione ha una conseguenza, seppur minima, a livello di sistema. Sei libero di pensare, esprimere e condividere quello che ti pare: quello che ci si aspetta da te è che sia quanto meno un’azione consapevole e ponderata.
  10. È troppo facile esprimersi per lo più contro qualcosa o contro qualcuno, a maggior ragione oggi che tutti possono diffondere con facilità le proprie idee. Costringiti a discutere sempre e soltanto le idee, mai le persone. Costringiti a essere positivo, propositivo. Da grandi abilità derivano grandi responsabilità. Oggi non hai più scuse per non contribuire a migliorare il mondo. Comincia migliorando le tue idee, il modo in cui le presenti e l’impatto che possono avere nella tua rete sociale.
Marzo 26 2010

Uno di questi giorni, con più tempo, vorrei raccontare la nostra felice esperienza di parto naturale in casa. Vorrei per ora mettere a fuoco soltanto un concetto, che sento urgente: è assolutamente necessario, direi addirittura vitale per il genere umano, che le donne si riapproprino del loro sapere ancestrale legato alla nascita. È già tutto dentro di loro, il loro hardware e il loro software sono fatti apposta per generare vita in dolcezza e serenità. Altro che dolore: la retorica del dolore è una delle più grandi truffe ai danni dell’umanità. Certo che non è semplice come una passeggiata né piacevole come un massaggio balinese: il parto è cruento, piscologicamente e fisicamente impegnativo. Ma tutto ciò che succede, succede per un motivo e se si impara a riconoscere e dominare quello che accade non c’è analgesico che tenga.

Posto che è giusto che ognuno possa decidere per sé ciò che sente più giusto, dunque anche sedare ogni terminazione nervosa, dal mio punto di vista non c’è nulla di meno comprensibile della rincorsa all’epidurale o, peggio ancora, al cesareo quando non è strettamente necessario. È un raggiro, è l’istituzionalizzazione di un’ignoranza: invece di provare vergogna per le sue mancanze culturali, la nostra società incoraggia una medicalizzazione portata alle estreme conseguenze che fa gli interessi di tanti, ma certo non delle mamme e tantomeno dei bimbi. Ti insegnano per nove mesi delle procedure, ma è un inganno: sono le procedure che servono ad altri per gestire più numeri e più in fretta, e per tutelarsi legalmente da ogni starnuto.

Io li capisco i medici, e non credo certo che siano tutti dei criminali in malafede. I ginecologi, per esempio: ne vedono di tutti i colori, conoscono tutti i rischi di complicazioni. Sono abituati a pensare che se qualcosa può andare male certamente lo farà. Così nel dubbio si attengono alle procedure più sicure e scrupolose a prescindere per tutti. Ma la grandissima parte delle nascite non ha problemi e farebbe certamente a meno delle complicazioni legate all’ansia, alla dipendenza dall’ecografia, alla paranoia trasmessa dalle strutture sanitarie. Gli anestesisti li capisco meno, francamente: l’unico motivo per cui mi spiego il loro sostegno quasi incondizionato ai metodi artificiali di contenimento del dolore è che questi rendono molto e permettono al loro reparto di investire in altri servizi o ricerche utili che la contrazione delle spese statali non consente. Ho simpatia per le ostetriche, invece: sono costrette ad adeguarsi a un cinismo che non ha nulla a che fare con il loro mestiere. Le puoi dividere in gruppi: le ribelli e le istituzionalizzate. Le prima, appena possono, scappano. E ci credo.

Si parla di parto in casa soltanto per rivendicazioni economiche: ogni tanto saltano fuori mamme particolarmente agguerrite che pretendono il riconoscimento da parte del servizio sanitario della spesa da loro sostenuta. Han fatto risparmiare soldi allo Stato e una parte di quei soldi basterebbero a ripagare l’esborso della famiglia ribelle. Ma il problema non è la spesa, che pure immagino trattenga molte famiglie dal fare una scelta di questo tipo. Il punto è recuperare ovunque, dentro e fuori dagli ospedali, una conoscenza della nascita, una cultura del parto che viene sempre più spesso umiliata e disconosciuta. Dovrebbe essere una materia di scuola: educazione civica, biologia umana, ecologia dell’esistenza, non so. Fatto sta che ogni donna dovrebbe conoscere, fin da bambina, come la fisiologia del suo corpo racchiuda enormi capacità, delle quali può essere consapevole dominatrice o atterrita schiava. Assecondare queste capacità, riconoscerle, saperle gestire è più potente di qualunque anestetico, più sicuro di qualunque posizione da parto, più delicato di qualunque intervento esterno.

Io sono sicuro che io e la mia famiglia siamo stati estremamente fortunati nel corso di entrambe le gravidanze e credo che il mio punto di vista ne sia inevitabilmente influenzato. Ma so anche che se non fosse stato per la forza di Stefania, per la sua ostinazione nel mettere in discussione i percorsi che le venivano imposti senza apparentemente contemplare scelta, per la sua testardaggine nel trovare risposte personalizzate, per la sua sete di conoscenza clinica, entrambi i parti sarebbero stati molto peggiori, molto più dolorosi, molto meno sereni. E sono convinto che le nascite che mia moglie ha preteso per i nostri figli siano il più grande regalo che da genitori potremo mai fare loro. Nella scelta di partorire in casa non c’è soltanto la sconsideratezza che leggo sotto forma di biasimo negli occhi di molte persone con cui abbiamo parlato in questi giorni: se lo fai, ti affidi a professionisti preparati, che sanno riconoscere le condizioni che lo rendono opportuno e che per primi ti trascinano in ospedale se non è possibile procedere in modo sicuro.

C’è un mondo dietro le confuse riflessioni che sto provando ad abbozzare (con spirito di testimonianza e non certo di prescrizione universale), al quale non è facile avere accesso se qualche anima buona non ti indica un portoncino di servizio da cui entrare. Nel nostro caso è stato un regalo, un bellissimo libro di Verena Schmidt (Venire al mondo, dare alla luce) che noi da anni a nostra volta regaliamo a tutte le coppie di amici incinti. In questi giorni sta uscendo un nuovo libro della stessa autrice, Apprendere la maternità e ne sfogliavo proprio stamattina le prime pagine, annotando ogni piccola ola interiore che mi provoca. A cominciare da questa:

I gruppi di donne già in tempi lontani furono luogo “di coltivazione” del sapere femminile, luogo di condivisione e territorio sociale dei valori femmili. Oggi possono risorgere come strumento per il ritorno al sapere della maternità, della ciclicità che ancora dorme nella profondità di ogni donna. Di questo sapere non ha bisogno soltanto la donna, il figlio, la figlia che da lei nascono, ma anche il mondo, che sta sprofondando nella violenza, nei soprusi, nel disprezzo per la vita umana e rischia di morire per mancanza di “cure materne”. L’istinto protettivo innato nel femminile, ma leso sistematicamente, ha bisogno di risorgere nelle donne e negli uomini in difesa dell’integrità dello sviluppo umano.
[Verena Schmidt, Apprendere la maternità, Urra, 2010, pagg. XI e XII]

(Non credo sia davvero necessario spiegarlo, ma per correttezza e rispetto di tutti: collaboro con la casa editrice che pubblica i libri di Verena Schmidt, anche se non sono coinvolto direttamente nella loro produzione e promozione. Ogni valutazione qui riportata è del tutto personale ed è frutto delle mie esperienze di vita e del desiderio che altri possano avere almeno la possibilità di scegliere.)

Marzo 4 2010

Dan Gillmore scriveva l’altro giorno di come i cittadini che fotografano il fatto di cronaca e lo rilanciano in rete non siano forse giornalisti, ma di certo commettono atti di giornalismo. Sulla stessa falsariga, ieri al convegno di Ustation Roberto Toffolutti suggeriva che forse la rete non ci rende tutti editori, ma permette a tutti di compiere atti editoriali. Nel vivace dibattito americano sull’attentatore suicida che si è lanciato sulla sede di Austin del fisco americano, dibattito che cerca da giorni di decidere se si può chiamare terrorista quello che probabilmente è soltanto un fanatico violento, c’è chi comincia a dire che no, non era un terrorista, ma è innegabile che abbia compiuto atti di terrorismo. Cominciano a mancare le parole per definirci.

Febbraio 17 2010

Da qualche parte dovremo pur ricominciare a ricostruire questo Paese. Sono convinto da tempo che la soluzione non riuscirà più ad arrivare dall’alto, ma dovrà necessariamente emergere dal basso. Da ciascuno di noi in quanto parte di un soggetto collettivo che ha il dovere di farsi carico del proprio destino. Se le cose vanno come vanno è prima di tutto colpa nostra, altrimenti certe anomalie italiane non sarebbero durate nemmeno un giorno. Ci penso spesso, cercando un appiglio, un innesco per questa rivoluzione gioiosa che sono certo un giorno salverà l’Italia dalla depressione, dalla senilità e dalla rassegnazione. Ieri sera alla stazione centrale di Milano penso di averlo finalmente trovato. Nei panini.

In nessuna stazione o aeroporto in cui mi sia capitato di transitare si mangiano panini altrettanto scialbi, insignificanti, dozzinali. Non necessariamente cattivi: semplicemente si accontentano di essere il meno possibile, il punto di equilibrio più stiracchiato possibile tra necessità delle persone, costo al dettaglio e qualità complessiva. Tu hai fame, loro hanno il cibo: se non ti sei preso per tempo, se viaggi a orari critici, se devi calmare quel languorino che poi ti rende il tragitto una sofferenza non hai alternative. In dieci anni che frequento regolarmente quel luogo non è mai comparsa un’alternativa che sia una, e al contrario ce ne sono sempre meno. Nell’arco di mezzo chilometro, nella seconda città del Belpaese, l’unica alternativa sono i panini di McDonald’s, per dire. Non ho mai mangiato cibo da urlo in una stazione, ma insignificante e avvilente come quello di Milano – che pure ho comprato spesso per necessità e disorganizzazione – da nessuna parte mai.

Allora, ragionavo ieri sera, se volessimo cominciare a prenderci carico delle sorti di questo Paese, i panini della stazione centrale di Milano potrebbero essere un buon punto di partenza. Un pretesto, un simbolo da stampare sulle bandiere che sventoleremo durante la rivoluzione. Sono la metafora perfetta di ogni grettezza, di tutto il cinismo, del primato del commercio su ogni afflato di umanità e di passione per ciò che si fa. Immagino che quei panini facciano girare (non poco) l’economia di quel microcosmo, ma chi conta i soldi deve avere gli occhi foderati di prosciutto, ed è prosciutto scadente. Ecco, cominciare a lottare per quei panini – non tanto per averne di migliori, quanto per rivendicare il nostro sacrosanto diritto alla gioia del palato, alla soddisfazione dell’appetito e al felicità dello stomaco – mi sembra un punto di partenza. Il fatto che non esistano alternative non deve giustificare la nostra complicità. Boicottiamo i panini della stazione centrale di Milano, lottiamo per averne di migliori, marciamo per la dignità dei nostri apparati digerenti. Un uomo è anche ciò che mangia, se mangiamo cibo triste siamo destinati a crogiolarci in questa malinconia. Tutto il nostro essere, a cominciare dalle papille gustative, anela alla felicità. Capaci che se ci prendiamo gusto poi, un po’ per volta, ce la si faccia ad arrivare fino ai massimi sistemi.

(Avevo anche un ragionamento iconoclasta sulla violenza psicologica degli spot rilanciati dagli schermi comparsi nelle stazioni italiane e sul nostro diritto naturale a sabotarli, ma magari un’altra volta.)

Febbraio 10 2010

Ieri ho spostato libri tutto il giorno per mettere a punto una bibliografia. Improvvisamente ho messo a fuoco una curiosità che continuava a sfuggirmi davanti agli occhi: i libri americani non hanno (quasi) mai il marchio dell’editore sulla copertina. Il logo compare discreto sulla costa e in quarta di copertina, ma la prima di copertina è tutta concentrata sulla presentazione del libro e del suo autore. Pulita, essenziale e in un certo senso unica. Abituato alle gabbie italiane, dove il formato e il design caratterizzano a prima vista non solo l’editore, ma spesso addirittura la collana, ci ho rimuginato un po’ su. Pensa ai libri Einaudi, per dirne una, raffinatissimi nella loro essenzialità, in quella peculiare predominanza di bianco: è chiaro al primo sguardo che quello è prima di tutto un libro Einaudi; solo dopo ti concentri sulla sua unicità, sul suo titolo, sul suo autore.

Non è questione di meglio o peggio: sono sensibilità diverse, storie diverse, mercati diversi. Però non mi dispiace quello che leggo tra le righe di questa convenzione tutta americana: la interpreto come una forma di rispetto estremo per il libro, per l’unicità della sua storia, per un processo di produzione e commercializzazione che non dovrebbe conoscere routine e che andrebbe adattato titolo per titolo. E mi sembra interessante che un mercato che istintivamente percepisco come più industriale e codificato del nostro riesca a comunicare al contrario questo sottile non-so-che di artigianale. Da noi l’artigianato sta soprattutto soprattutto nella fase di produzione (ed è un bene, credo), poi il prodotto è indirizzato su un percorso standardizzato e impersonale già a partire dalla confezione.

Tra le righe leggo anche un diverso equilibrio tra i ruoli. L’editore sceglie, produce e distribuisce (tre parole da cui trapela a fatica la complessità): è il soggetto forte, quello che garantisce la vita commerciale di un testo, quello che ha l’ultima parola e che per definizione deve guadagnare dal suo prodotto. Ma una volta che il libro è fatto, che al mercato (ovvero ai distributori e ai librai) sono chiare le sue coordinate e che s’è investito quel che si doveva investire in marketing, l’editore statunitense fa un passo indietro. A quel punto diventa una relazione tra librario e cliente. E diventa, soprattutto, una questione di empatia a distanza tra autore e lettore (la scrittura è telepatia, dice Stephen King in On Writing). In Europa l’editore è l’ospite. Negli Stati Uniti è il maggiordomo.

Novembre 26 2009

Torno sui due post precedenti, per una questione che sembrerebbe minare la relazione tra la scadenza della legge Pisanu con gli effetti sul WiFi. Nel suo post di presentazione della nuova proposta, Cassinelli specifica – e su questo mi richiamano anche Pietro Mencoboni nei commenti del post precedente e nei giorni scorsi anche Marco Scialdone nel suo blog – che la scadenza della legge Pisanu non cancellerebbe comunque il regime di identificazione vigente. Questo perché il comma 4 dell’articolo 7 della legge Pisanu demanda l’attuazione delle misure previste a un decreto ministeriale (emanato il 16/08/2005). A parte il fatto che nulla impedisce di novellare il decreto, ma per quel poco che capisco del diritto mi vien da dire che venendo meno la legge verrebbe meno anche la base giuridica del decreto stesso: come dire, avrebbe i giorni contati.

Mi pare che il nodo della questione stia piuttosto nel fatto che Cassinelli, così come Scialdone, interpreti il comma 4 dell’articolo 7 della legge Pisanu come del tutto slegato dal comma 1 dello stesso articolo, dove invece la scadenza è esplicitata. Dalla lettura dell’articolo 7 a me pare evidente il legame tra i vari commi e la scadenza comune. Non mi addentro in discussioni giuridiche per le quali non ho evidentemente la preparazione sufficiente, ma l’interpretazione mi sembra quanto meno un po’ dubbia e non ci costruirei sopra la ragion d’essere della proposta Cassinelli.  Mi limito a pensare che di una legge tutta sbagliata non abbia senso modificare piccoli pezzi. La scadenza della legge Pisanu porterebbe con sé buona parte dei pilastri della registrazione/autenticazione/archiviazione delle navigazioni degli utenti che da anni proviamo a mettere in discussione. E dal mio punto di vista sarebbe un buon inizio. Certo non la soluzione, che il problema è complesso, ma un buon inizio.

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