La guerra giusta, le bombe intelligenti e tutte le altre menzogne retoriche. Quando, sul ciglio della disgraziata guerra in Iraq, qualcuno alzava la voce per ricordare che nei conflitti contemporanei il 90% delle vittime sono civili, veniva messo a tacere e sbeffeggiato dagli zelanti portavoce della coalizione dei volonterosi. Oggi sappiamo che erano questi ultimi ad avere ragione: in effetti le vittime civili in Iraq non sono il 90%, sono soltanto il 60%. Saranno soddisfatti.
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Il beneficio del dubbio, a posteriori
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Fanno cinque anni, lascio?
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Uno dei motivi per cui non amo molto la politica (in realtà la realpolitik) è la straordinaria mutevolezza del contesto. Mutevolezza in virtù della quale un anno fa – come ogni anno dal 2005 in poi, solo in modo più organizzato – un manipolo di persone competenti sottopose a governo e parlamento l’urgenza di non rinnovare oltre la malaugurata legge Pisanu e ricevette in risposta nella migliore delle ipotesi pernacchie e nella peggiore sbadigli indifferenti. Mentre oggi che l’argomento è divenuto strumento inaspettato di convergenze strategiche aliene alla visione tecnosociale del Paese dobbiamo improvvisamente sorbirci le ispirate prese di posizione dei personaggi più in vista sulla necessità di recuperare il tempo perduto e di imboccare con decisione la via del WiFi libero. È tutta gente che, in occasioni e momenti diversi, avrebbe potuto fare la sua parte per evitare che nel frattempo diventassimo uno dei Paesi meno contemporanei dell’Occidente e non l’ha voluta o saputa fare. Pur che sia, ci berremo anche tutto questo. Però spero sia chiaro anche a loro stessi: non sono affatto credibili.
È anche un problema di virgole
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Lui scrive di getto, dal cellulare, senza cura per la punteggiatura e senza rispetto per il lettore. Ne esce un pensiero faticoso e poco chiaro, di quelli che pur volendo essere assertivi ti lasciano alcuni punti di domanda. Lei glielo fa notare: non potresti essere più chiaro? Lui risponde: dal cellulare va così, mi passa la voglia di trovare le virgole e se ragionassi di più mentre scrivo perderei di efficacia. Scorrendo innocenti aggiornamenti estivi su Facebook mi si accende una lampadina. È proprio così che facciamo: quando abbiamo torto marcio difendiamo le nostre ragioni con sprezzo della vergogna che dovrebbe serrarci la bocca e invece rispondiamo con la supponenza delle nostre condizioni soggettive elette a criterio universale di giudizio e di giustificazione. Non rispettiamo più le regole del gioco: abbiamo abbandonato il campo neutro, ci siamo ritirati nel nostro cortile. Ognuno contro tutti gli altri, ognuno secondo ordini differenti e autoindulgenti.
Il mondo ha bisogno di cure materne
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Uno di questi giorni, con più tempo, vorrei raccontare la nostra felice esperienza di parto naturale in casa. Vorrei per ora mettere a fuoco soltanto un concetto, che sento urgente: è assolutamente necessario, direi addirittura vitale per il genere umano, che le donne si riapproprino del loro sapere ancestrale legato alla nascita. È già tutto dentro di loro, il loro hardware e il loro software sono fatti apposta per generare vita in dolcezza e serenità. Altro che dolore: la retorica del dolore è una delle più grandi truffe ai danni dell’umanità. Certo che non è semplice come una passeggiata né piacevole come un massaggio balinese: il parto è cruento, piscologicamente e fisicamente impegnativo. Ma tutto ciò che succede, succede per un motivo e se si impara a riconoscere e dominare quello che accade non c’è analgesico che tenga.
Posto che è giusto che ognuno possa decidere per sé ciò che sente più giusto, dunque anche sedare ogni terminazione nervosa, dal mio punto di vista non c’è nulla di meno comprensibile della rincorsa all’epidurale o, peggio ancora, al cesareo quando non è strettamente necessario. È un raggiro, è l’istituzionalizzazione di un’ignoranza: invece di provare vergogna per le sue mancanze culturali, la nostra società incoraggia una medicalizzazione portata alle estreme conseguenze che fa gli interessi di tanti, ma certo non delle mamme e tantomeno dei bimbi. Ti insegnano per nove mesi delle procedure, ma è un inganno: sono le procedure che servono ad altri per gestire più numeri e più in fretta, e per tutelarsi legalmente da ogni starnuto.
Io li capisco i medici, e non credo certo che siano tutti dei criminali in malafede. I ginecologi, per esempio: ne vedono di tutti i colori, conoscono tutti i rischi di complicazioni. Sono abituati a pensare che se qualcosa può andare male certamente lo farà. Così nel dubbio si attengono alle procedure più sicure e scrupolose a prescindere per tutti. Ma la grandissima parte delle nascite non ha problemi e farebbe certamente a meno delle complicazioni legate all’ansia, alla dipendenza dall’ecografia, alla paranoia trasmessa dalle strutture sanitarie. Gli anestesisti li capisco meno, francamente: l’unico motivo per cui mi spiego il loro sostegno quasi incondizionato ai metodi artificiali di contenimento del dolore è che questi rendono molto e permettono al loro reparto di investire in altri servizi o ricerche utili che la contrazione delle spese statali non consente. Ho simpatia per le ostetriche, invece: sono costrette ad adeguarsi a un cinismo che non ha nulla a che fare con il loro mestiere. Le puoi dividere in gruppi: le ribelli e le istituzionalizzate. Le prima, appena possono, scappano. E ci credo.
Si parla di parto in casa soltanto per rivendicazioni economiche: ogni tanto saltano fuori mamme particolarmente agguerrite che pretendono il riconoscimento da parte del servizio sanitario della spesa da loro sostenuta. Han fatto risparmiare soldi allo Stato e una parte di quei soldi basterebbero a ripagare l’esborso della famiglia ribelle. Ma il problema non è la spesa, che pure immagino trattenga molte famiglie dal fare una scelta di questo tipo. Il punto è recuperare ovunque, dentro e fuori dagli ospedali, una conoscenza della nascita, una cultura del parto che viene sempre più spesso umiliata e disconosciuta. Dovrebbe essere una materia di scuola: educazione civica, biologia umana, ecologia dell’esistenza, non so. Fatto sta che ogni donna dovrebbe conoscere, fin da bambina, come la fisiologia del suo corpo racchiuda enormi capacità, delle quali può essere consapevole dominatrice o atterrita schiava. Assecondare queste capacità, riconoscerle, saperle gestire è più potente di qualunque anestetico, più sicuro di qualunque posizione da parto, più delicato di qualunque intervento esterno.
Io sono sicuro che io e la mia famiglia siamo stati estremamente fortunati nel corso di entrambe le gravidanze e credo che il mio punto di vista ne sia inevitabilmente influenzato. Ma so anche che se non fosse stato per la forza di Stefania, per la sua ostinazione nel mettere in discussione i percorsi che le venivano imposti senza apparentemente contemplare scelta, per la sua testardaggine nel trovare risposte personalizzate, per la sua sete di conoscenza clinica, entrambi i parti sarebbero stati molto peggiori, molto più dolorosi, molto meno sereni. E sono convinto che le nascite che mia moglie ha preteso per i nostri figli siano il più grande regalo che da genitori potremo mai fare loro. Nella scelta di partorire in casa non c’è soltanto la sconsideratezza che leggo sotto forma di biasimo negli occhi di molte persone con cui abbiamo parlato in questi giorni: se lo fai, ti affidi a professionisti preparati, che sanno riconoscere le condizioni che lo rendono opportuno e che per primi ti trascinano in ospedale se non è possibile procedere in modo sicuro.
C’è un mondo dietro le confuse riflessioni che sto provando ad abbozzare (con spirito di testimonianza e non certo di prescrizione universale), al quale non è facile avere accesso se qualche anima buona non ti indica un portoncino di servizio da cui entrare. Nel nostro caso è stato un regalo, un bellissimo libro di Verena Schmidt (Venire al mondo, dare alla luce) che noi da anni a nostra volta regaliamo a tutte le coppie di amici incinti. In questi giorni sta uscendo un nuovo libro della stessa autrice, Apprendere la maternità e ne sfogliavo proprio stamattina le prime pagine, annotando ogni piccola ola interiore che mi provoca. A cominciare da questa:
I gruppi di donne già in tempi lontani furono luogo “di coltivazione” del sapere femminile, luogo di condivisione e territorio sociale dei valori femmili. Oggi possono risorgere come strumento per il ritorno al sapere della maternità, della ciclicità che ancora dorme nella profondità di ogni donna. Di questo sapere non ha bisogno soltanto la donna, il figlio, la figlia che da lei nascono, ma anche il mondo, che sta sprofondando nella violenza, nei soprusi, nel disprezzo per la vita umana e rischia di morire per mancanza di “cure materne”. L’istinto protettivo innato nel femminile, ma leso sistematicamente, ha bisogno di risorgere nelle donne e negli uomini in difesa dell’integrità dello sviluppo umano.
[Verena Schmidt, Apprendere la maternità, Urra, 2010, pagg. XI e XII]
(Non credo sia davvero necessario spiegarlo, ma per correttezza e rispetto di tutti: collaboro con la casa editrice che pubblica i libri di Verena Schmidt, anche se non sono coinvolto direttamente nella loro produzione e promozione. Ogni valutazione qui riportata è del tutto personale ed è frutto delle mie esperienze di vita e del desiderio che altri possano avere almeno la possibilità di scegliere.)
La valigia dell’attore
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Dan Gillmore scriveva l’altro giorno di come i cittadini che fotografano il fatto di cronaca e lo rilanciano in rete non siano forse giornalisti, ma di certo commettono atti di giornalismo. Sulla stessa falsariga, ieri al convegno di Ustation Roberto Toffolutti suggeriva che forse la rete non ci rende tutti editori, ma permette a tutti di compiere atti editoriali. Nel vivace dibattito americano sull’attentatore suicida che si è lanciato sulla sede di Austin del fisco americano, dibattito che cerca da giorni di decidere se si può chiamare terrorista quello che probabilmente è soltanto un fanatico violento, c’è chi comincia a dire che no, non era un terrorista, ma è innegabile che abbia compiuto atti di terrorismo. Cominciano a mancare le parole per definirci.
I panini e la rivoluzione
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Da qualche parte dovremo pur ricominciare a ricostruire questo Paese. Sono convinto da tempo che la soluzione non riuscirà più ad arrivare dall’alto, ma dovrà necessariamente emergere dal basso. Da ciascuno di noi in quanto parte di un soggetto collettivo che ha il dovere di farsi carico del proprio destino. Se le cose vanno come vanno è prima di tutto colpa nostra, altrimenti certe anomalie italiane non sarebbero durate nemmeno un giorno. Ci penso spesso, cercando un appiglio, un innesco per questa rivoluzione gioiosa che sono certo un giorno salverà l’Italia dalla depressione, dalla senilità e dalla rassegnazione. Ieri sera alla stazione centrale di Milano penso di averlo finalmente trovato. Nei panini.
In nessuna stazione o aeroporto in cui mi sia capitato di transitare si mangiano panini altrettanto scialbi, insignificanti, dozzinali. Non necessariamente cattivi: semplicemente si accontentano di essere il meno possibile, il punto di equilibrio più stiracchiato possibile tra necessità delle persone, costo al dettaglio e qualità complessiva. Tu hai fame, loro hanno il cibo: se non ti sei preso per tempo, se viaggi a orari critici, se devi calmare quel languorino che poi ti rende il tragitto una sofferenza non hai alternative. In dieci anni che frequento regolarmente quel luogo non è mai comparsa un’alternativa che sia una, e al contrario ce ne sono sempre meno. Nell’arco di mezzo chilometro, nella seconda città del Belpaese, l’unica alternativa sono i panini di McDonald’s, per dire. Non ho mai mangiato cibo da urlo in una stazione, ma insignificante e avvilente come quello di Milano – che pure ho comprato spesso per necessità e disorganizzazione – da nessuna parte mai.
Allora, ragionavo ieri sera, se volessimo cominciare a prenderci carico delle sorti di questo Paese, i panini della stazione centrale di Milano potrebbero essere un buon punto di partenza. Un pretesto, un simbolo da stampare sulle bandiere che sventoleremo durante la rivoluzione. Sono la metafora perfetta di ogni grettezza, di tutto il cinismo, del primato del commercio su ogni afflato di umanità e di passione per ciò che si fa. Immagino che quei panini facciano girare (non poco) l’economia di quel microcosmo, ma chi conta i soldi deve avere gli occhi foderati di prosciutto, ed è prosciutto scadente. Ecco, cominciare a lottare per quei panini – non tanto per averne di migliori, quanto per rivendicare il nostro sacrosanto diritto alla gioia del palato, alla soddisfazione dell’appetito e al felicità dello stomaco – mi sembra un punto di partenza. Il fatto che non esistano alternative non deve giustificare la nostra complicità. Boicottiamo i panini della stazione centrale di Milano, lottiamo per averne di migliori, marciamo per la dignità dei nostri apparati digerenti. Un uomo è anche ciò che mangia, se mangiamo cibo triste siamo destinati a crogiolarci in questa malinconia. Tutto il nostro essere, a cominciare dalle papille gustative, anela alla felicità. Capaci che se ci prendiamo gusto poi, un po’ per volta, ce la si faccia ad arrivare fino ai massimi sistemi.
(Avevo anche un ragionamento iconoclasta sulla violenza psicologica degli spot rilanciati dagli schermi comparsi nelle stazioni italiane e sul nostro diritto naturale a sabotarli, ma magari un’altra volta.)
Le copertine dei libri americani
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Ieri ho spostato libri tutto il giorno per mettere a punto una bibliografia. Improvvisamente ho messo a fuoco una curiosità che continuava a sfuggirmi davanti agli occhi: i libri americani non hanno (quasi) mai il marchio dell’editore sulla copertina. Il logo compare discreto sulla costa e in quarta di copertina, ma la prima di copertina è tutta concentrata sulla presentazione del libro e del suo autore. Pulita, essenziale e in un certo senso unica. Abituato alle gabbie italiane, dove il formato e il design caratterizzano a prima vista non solo l’editore, ma spesso addirittura la collana, ci ho rimuginato un po’ su. Pensa ai libri Einaudi, per dirne una, raffinatissimi nella loro essenzialità, in quella peculiare predominanza di bianco: è chiaro al primo sguardo che quello è prima di tutto un libro Einaudi; solo dopo ti concentri sulla sua unicità, sul suo titolo, sul suo autore.
Non è questione di meglio o peggio: sono sensibilità diverse, storie diverse, mercati diversi. Però non mi dispiace quello che leggo tra le righe di questa convenzione tutta americana: la interpreto come una forma di rispetto estremo per il libro, per l’unicità della sua storia, per un processo di produzione e commercializzazione che non dovrebbe conoscere routine e che andrebbe adattato titolo per titolo. E mi sembra interessante che un mercato che istintivamente percepisco come più industriale e codificato del nostro riesca a comunicare al contrario questo sottile non-so-che di artigianale. Da noi l’artigianato sta soprattutto soprattutto nella fase di produzione (ed è un bene, credo), poi il prodotto è indirizzato su un percorso standardizzato e impersonale già a partire dalla confezione.
Tra le righe leggo anche un diverso equilibrio tra i ruoli. L’editore sceglie, produce e distribuisce (tre parole da cui trapela a fatica la complessità): è il soggetto forte, quello che garantisce la vita commerciale di un testo, quello che ha l’ultima parola e che per definizione deve guadagnare dal suo prodotto. Ma una volta che il libro è fatto, che al mercato (ovvero ai distributori e ai librai) sono chiare le sue coordinate e che s’è investito quel che si doveva investire in marketing, l’editore statunitense fa un passo indietro. A quel punto diventa una relazione tra librario e cliente. E diventa, soprattutto, una questione di empatia a distanza tra autore e lettore (la scrittura è telepatia, dice Stephen King in On Writing). In Europa l’editore è l’ospite. Negli Stati Uniti è il maggiordomo.
Torno sui due post precedenti, per una questione che sembrerebbe minare la relazione tra la scadenza della legge Pisanu con gli effetti sul WiFi. Nel suo post di presentazione della nuova proposta, Cassinelli specifica – e su questo mi richiamano anche Pietro Mencoboni nei commenti del post precedente e nei giorni scorsi anche Marco Scialdone nel suo blog – che la scadenza della legge Pisanu non cancellerebbe comunque il regime di identificazione vigente. Questo perché il comma 4 dell’articolo 7 della legge Pisanu demanda l’attuazione delle misure previste a un decreto ministeriale (emanato il 16/08/2005). A parte il fatto che nulla impedisce di novellare il decreto, ma per quel poco che capisco del diritto mi vien da dire che venendo meno la legge verrebbe meno anche la base giuridica del decreto stesso: come dire, avrebbe i giorni contati.
Mi pare che il nodo della questione stia piuttosto nel fatto che Cassinelli, così come Scialdone, interpreti il comma 4 dell’articolo 7 della legge Pisanu come del tutto slegato dal comma 1 dello stesso articolo, dove invece la scadenza è esplicitata. Dalla lettura dell’articolo 7 a me pare evidente il legame tra i vari commi e la scadenza comune. Non mi addentro in discussioni giuridiche per le quali non ho evidentemente la preparazione sufficiente, ma l’interpretazione mi sembra quanto meno un po’ dubbia e non ci costruirei sopra la ragion d’essere della proposta Cassinelli. Mi limito a pensare che di una legge tutta sbagliata non abbia senso modificare piccoli pezzi. La scadenza della legge Pisanu porterebbe con sé buona parte dei pilastri della registrazione/autenticazione/archiviazione delle navigazioni degli utenti che da anni proviamo a mettere in discussione. E dal mio punto di vista sarebbe un buon inizio. Certo non la soluzione, che il problema è complesso, ma un buon inizio.
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